Alpinismo solitario: Iannilli, 'Senza perdere la tenerezza' sul Gran Sasso

Il 28 e 29 luglio 2009 Roberto Iannilli in solitaria ha completato l'apertura di Senza perdere la tenerezza - 390m, EX- (tiro di A3+/A4 e pass. fino al VI+) - nuova via dedicata a Giampiero Capoccia sulla parete Est del Corno Piccolo, Gran Sasso
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Roberto Iannilli (autoscatto) in cresta, all'ultima sosta di Senza perdere la tenerezza, con gli occhiali rotti
R. Iannilli
Immaginate un vertiginoso e strapiombante muro di roccia gialla e compatta. Immaginate un  uomo che l'affronta da solo. E immaginate i suoi pensieri mentre si dirige verso la parete. Non è la prima volta. Già un anno prima aveva tentato di salirla con un amico (Cesare Giuliani), senza successo. Lì in alto c'è un punto che li ha ricacciati indietro. Un rebus che né la sua maestria né i suoi marchingegni per l'arrampicata artificiale ha saputo risolvere. Anche ora che s'appresta a ritentare da solo l'avventura non sa se riuscirà a passare. Non sa se troverà la chiave di quel 6° tiro di artificiale estrema. Non ha sicurezza alcuna di oltrepassare la “porta sbarrata” per quella fessura che lo porterà, in arrampicata libera, fuori dalla parete. E forse non sa bene neanche il perché sta ritornando su quella via ancora senza soluzione...

Quella che leggerete è la storia dei due giorni che Roberto Iannilli ha passato in parete. Due giorni e 390 metri che sono un niente rispetto alla sua vita ma che, per lo strano gioco dell'alpinismo, contengono tutto il mondo e tutta la vita. Quel mondo, che sta aldilà della “bolla” che avvolge la dura esperienza dell'uomo solo in parete. Ma che contiene tutta l'esperienza di “Senza perdere la tenerezza”, la via in artificiale più “dura” del Gran Sasso.

IL GIUSTO RITMO DA SEGUIRE di Roberto Iannilli

Prima dell’alba ero all’attacco, ora sono alla sosta del sesto tiro, quello della rinuncia dell’anno passato e guardo perplesso il lontanissimo cordino penzolante lasciato in quella clessidra, la parete strapiomba talmente che lo fa sembrare orizzontale. Tengo ai piedi le scarpe da trekking e mi appendo all’imbrago le scarpette d’arrampicata, mi serviranno solo per l’ultimo tratto, dove spero di poter andare in libera.
- (Ormai ci sono, tanto vale provare.) Vado!

Inizia la laboriosa e tecnica progressione in arrampicata artificiale, dove nulla è improvvisato, tutto collaudato prima dell’uso, dove il limite della precarietà è la sensazione più sperimentata. Due friend grandi nella fessura che si esaurisce, poi mi sposto sotto la nicchia e inizio a utilizzare cliff e piccoli chiodi autocostruiti. Dopo un rurp, in un buco metto un chiodo a “U”, gli do belle martellate e rimbalza fuori. Lo rimetto battendo poco… l’importante è tiralo per il verso giusto. Ancora cliff, poi un ennesimo rurp. Arrivo ad una fessurina rovescia e mi domando:
- (Come ho fatto l’altra volta con Cesare [*], che c’ho ficcato qua per passare?)

Ogni marchingegno è utilizzato con mille cautele, con meticolosità e precisione, nulla è tentato, non ci sono “lanci” o “movimenti dinamici”. La staticità è messa al servizio della fisica, della gravità, ogni ancoraggio ha il suo verso, il suo “modo”. La precisione e la calma sono il “metodo” ed io rallento le mie abitudini per seguire il ritmo lento e cadenzato dell’ “artificiale”. Da un ancoraggio che sostiene il mio peso studio i successivi metri di roccia alla ricerca dell’idea. Escogito, provo, a volte fallisco, finché non trovo la soluzione al problema e posiziono qualcosa che ce la fa a tenermi, per poi riprendere lo studio.

La fessura non è abbastanza sottile ed il rurp entra troppo facilmente. Tento con un knife-blade , o meglio un chiodo a lama, è troppo lungo e arriva subito al fondo; senza neppure provarlo capisco che non è affidabile. La mente allora scorre il campionario dell’attrezzatura che ho attaccata all’imbrago e provo la carta micro-nut in alluminio, di quelli piccolissimi. Messo di taglio non entra, quindi lo poggio sulla roccia è gli do una martellata su un lato, in modo da schiacciarlo un po, poi lo posiziono e, con il chiodo a lama di prima, lo martello fino a farlo entrare. A questo punto insisto in modo da deformarlo all’interno e renderlo abbastanza sicuro. Tiro su la doppia staffa, collegata all’imbrago con una da daisy chain e la moschettono al cordino del micro-nut. Nella posizione di auto sicura con un gancio fiffi all’imbrago, agganciato al rurp, l’ultimo ancoraggio messo, salgo sul gradino più basso e do due o tre strattoni con tutto il mio peso e qualche chilo in più, provando il micro-nut spiaccicato. Questo tiene, allora sgancio il fiffi e carico le due staffe. Più o meno quello che faccio ad ogni passo, che sia su un rurp, che su un cliff, ogni volta il meccanismo della progressione è analogo, ma tutte le volte si rinnova con una piccola scoperta, una nuova idea, fino al punto che può capitare di reinventare lo stesso passo a distanza di un anno.

Arrivo al cordino che sembrava orizzontale, un paio di altri passaggi nello stile dei precedenti e raggiungo l’ unico spit. Questo spit è stata una debolezza, data dall’esaurimento delle possibilità naturali della progressione, ma anche motivata da un cedimento, forse dovuto alla concentrazione. Un piccolo peccato che macchia la mia integrità di ”artificialista”… Ma c’è, e mi ci attacco con tutto il mio peso, come un naufrago perso nell’ oceano che approda su un isola deserta.
- Uff! – Sbuffo.
Mi concedo pochi secondi di tregua.
- (Quante ore è che sono sul tiro? Ho una sete bestiale e finché non esco dallo strapiombo non potrò bere. Meno male che ho lasciato l’acqua sulla cengia.)
Mi volto verso valle guardo oltre la mia attuale realtà, c’è un mondo intorno a me, sotto di me. Gente che cammina sul sentiero, uccelli che volano, nubi che passano; ho una famiglia a casa, un lavoro, degli amici; ho altre passioni oltre a questa… Eppure adesso il mio orizzonte non valica questi pochi metri di roccia, da scrutare, studiare, scoprire e provare. Tutto questo mi sembra patologico.

La mia impressione è che sia passata una mezz’ora, ma la solitudine in parete cambia registro al tempo. I rituali della scalata, le manovre, gli imprevisti, gli ostacoli e le paure, si svolgono ad un ritmo costante e collaudato. Non c'è fretta e neppure calma, tutto diventa "logico". Anche i problemi più rognosi vengono affrontati con un misto tra rassegnazione e determinazione. Passano le ore e si arrampica con metodo, senza parlare ma non in un vero silenzio, visto l' affollamento che c'è in testa. Tutto il ragionamento interiore è preso dai meccanismi della salita. La concentrazione raggiunge livelli inusitati, il mondo si restringe al tiro che stai salendo. Sei in una bolla [**], la "bolla del solitario", questa ti accompagna nel tuo salire e scendere, ti protegge da interferenze che non siano la scalata. Nell’ arrampicata artificiale questa sensazione si esalta, la disciplina costringe a tempi lunghi ed estrema attenzione ai dettagli; si raggiunge l' estasi dell'assoluta meditazione, il distacco dalla realtà, in pratica ti senti come drogato dalle tue azioni.

A qualcuno questo ragionamento sembrerà esagerato, chi ha praticato sul  serio l’ arrampicata solitaria credo mi capirà. Ciò che dico non è questione di  adrenalina, emozione... non ci si butta col paracadute o a testa in giù con due elastici alle caviglie, si entra in un mondo parallelo, dove tempo e ragione sono diversi da quelli che conosciamo abitualmente.

Il breve attimo è passato, la mia “bolla” riprende consistenza e torno al mio prossimo problema, il successivo ancoraggio dove piazzare le staffe. Un buco sulla destra e utilizzo l’ennesimo cliff, poi un paio di piccoli chiodi e sono al punto di “rinuncia” dell’anno passato: il rivetto. Non so cosa sia diverso in me, ma l’impressione di desolata liscezza della parete non mi sembra confermata, come se avessi migliori occhiali. Scopro due piccoli fori che non avevo visto con Cesare e riesco a mettere due di quei chiodini auto costruiti, ciò mi permette di acquistare fiducia e affrontare in modo più sereno l’ineluttabile arrivo del tratto veramente senza possibilità naturali.

Armato di pazienza pianto il primo rivetto della giornata, come prevedevo la roccia si sfalda e il foro non è preciso, per compensare la minore profondità utile sfruttata dal gambo, metto il cavetto di acciaio del rivet-hangers prima di martellare e schiaccio la testina semisferica del rivetto contro la roccia, senza lasciare spazio sufficiente per togliere il cavetto, quando disattrezzerò il tiro. Dopo il terzo rivetto scorgo un forellino e non mi sembra vero di poter utilizzare un allunin-head, cosa rara sulla roccia calcarea. Lo inserisco e con la apposita punta lo martello, finché il cilindretto di alluminio non si deforma a sufficienza da resistere al carico del mio peso. Continuo su un paio di rivetti e finalmente arrivo ad una serie di fori obliqui sulla parete che ora sembra appoggiata. In realtà strapiomba ancora, solo un po meno. La mia prospettiva è adesso falsata, il verticale, lo strapiombante e l’appoggiato, non sono gli stessi che vedo in normali condizioni ambientali.

Nel primo foro metto un chiodo a “U”, è piantato nella terra e tiene solo perché ha l’occhiello verso l’alto. Con il successivo devo armeggiare un po' con un friend, che non ne vuol sapere di far prendere tutte e quattro le camme. Altri due fori e sono all’inizio della fessura che porta fuori dallo strapiombo, dove finalmente potrò arrampicare il libera. Purtroppo sono ciechi e accettano solo cliff. Passo dal primo che è ottimo, al secondo, piatto e largo. Tenendo sotto controllo il clif e stando attento a non fargli perdere la posizione di trazione verso il basso, faccio esercizio di stretching e mi allungo quasi in orizzontalmente. Riesco ad appoggiare il chiodo alla fessura e lo picchio con cattiveria. Mi appendo e respiro profondamente: sono fuori dall’ artificiale.

Facendo attenzione a non farle cadere mi cambio le scarpe, calzo quelle d’ arrampicata. Provo ad alzarmi tirando la fessura in dülfer. Sono stravolto dalla fatica e dalla disidratazione, il passaggio mi sembra impossibile. Mesto riprendo le mie staffe e, in modo da risparmiare i due friend restati che mi serviranno per il proseguo, utilizzo un buco sulla destra per il “centesimo” cliff. Il foro è senza bordo, ma ormai ho familiarità con questo attrezzo, mi illudo di capire ad occhio se è affidabile e carico le staffe.

Per posizionare un friend mi alzo il più possibile, devo centellinare il materiale. Senza problemi lo inserisco nella fessura e cerco di prendere corda. Sto con i piedi sui gradini più alti delle staffe, con una mano tengo il friend e con l’altra tento di tirar su la pesantissima corda, aiutandomi con i denti. Ne recupero ma non arrivo a passarla nel moschettone, ne prendo altra e… “sdeng!” Il suono metallico del cliff che salta è come il colpo di pistola dello starter per una partenza dei 100 metri piani ed io sono velocissimo… Il volo è una frazione di secondo, ma dentro di me riesco a fare delle congetture che avrebbero bisogno di più tempo.
- (La caduta è troppo lunga, il chiodo deve essere uscito. Sotto ho il vuoto lasciato dai due cliff, un friend che è tutto storto ed un chiodo messo nella terra. Poi iniziano i rivetti, che li stacco come fossero una lampo … )

Il “Cinch” blocca, il chiodo tiene, la corda non si spezza, i moschettoni non si rompono, io non sbatto… e mi ritrovo appeso che giro su me stesso parecchi metri sotto, per fortuna non 100 e meno che mai piani. Gli avambracci graffiati e varie piccole ferite alle mani. Quasi con stupore mi accorgo di non tremare, non ho sentito nessuna scarica di adrenalina farmi vibrare. Un tempo mi accadeva e dovevo aspettare qualche momento per riprendermi. Non convinto attendo una frazione di secondo, certo che un qualche effetto il volo lo abbia avuto su di me, ed invece sono solo arrabbiato con la mia presunzione e superficialità. Quasi con freddezza analizzo l’ errore che ho commesso: ormai certo di essere fuori dalle difficoltà ho abbassato il livello di guardia.

Risalgo sulla corda, rimetto il cliff con più attenzione e aggancio il friend, che è restato in attesa del mio ritorno. In modo penoso, arrampicando goffamente continuo in libera fino ad arrivare al passaggio che la via “Cavalcare la Tigre” fa in discesa. Lo faccio in salita e sbarco sull’ agognata cengia sotto il “Pancione”, dove attacca la fessura di “Viaggiatore incantato”. Bevo con avidità e soddisfazione l’acqua che avevo lasciato durante la ripetizione di questa ultima e mi siedo sull’erbetta del panoramico terrazzino. Il cielo è sereno e la parete è in ombra da un pezzo, attrezzo la sosta e mi calo.

Alla sosta sotto faccio le contorsioni per mettermi il pesante zaino sulle spalle e inizio a risalire con le jumar, recuperando il materiale. Il forte strapiombo e la mancanza di appigli da tenere non mi da alternativa a togliere le protezioni con il mio peso che le sollecita, facendo tutte le volte dei pendoli. Il chiodo a “U” che, “l’importante è tiralo per il verso giusto”, parte come proiettile appena lo sollecito, lasciandomi un livido sul petto. Mi fermo a riprendere fiato molte volte e riemergo sulla cengia che sono le 17. Avrei almeno tre ore per arrampicare, di certo non ce la farei ad uscire in cresta e sarei costretto a bivaccare sull’amaca, per di più sono stanco e in queste condizioni rischierei troppo. Decido che per oggi basta, recupero e domani continuo.

Mi fermo, si mi fermo e godo di queste ore della sera, mangio e dormo quassù, in alto, in montagna, in parete. Non c’ è fretta, non c’ è lentezza, solo il giusto ritmo da seguire.

Ernesto “Che” Guevara diceva: “Bisogna esser duri senza mai perdere la tenerezza!”. La sua frase è attuale in questa nostra società che vuole essere solo dura, mostra il lato arcigno e intollerante e considera la tenerezza una debolezza.

Roberto Iannilli
Domenica 9 agosto 2009

Note:
La complessità del tiro non mi permette di ricordare con dettaglio la successione degli ancoraggi utilizzati, la sostanza resta però precisa.
[*]  -  Cesare Giuliani, forte alpinista, istruttore di alpinismo, amico e compagno di scalata nel precedente tentativo sulla via;
[**]- Il concetto di “bolla”, riferito però solo all’ arrampicata artificiale, è di Valerio Folco, lo racconta nel filmato “Dentro la bolla”.


Scheda - SENZA PERDERE LA TENEREZZA



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