Dal Sinai al Kanchenjunga: l'alpinismo in punta di piedi di Nives Meroi e Romano Benet

Prendendo spunto da "Sinai" il libro di Nives Meroi e Vito Mancuso edito da Fabbri, Simonetta Radice in questo incontro con Nives Meroi esplora il senso dell'andare per montagne, della libertà e del "sacro" per la coppia Meroi & Benet.
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Sinai di Nives Meroi e Vito Mancuso (Fabbri Editori)
"Mosè li aveva portati fin qui tra mille difficoltà, ma da quando avevano lasciato l'Egitto quelli non avevano fatto altro che lamentarsi: e il mare da attraversare, e l'acqua da bere, e non c'è niente da mangiare. Secondo me li aveva mandati tutti al diavolo e se n'era andato su per starsene un po' in pace". E' un'esegesi particolare quella che Romano Benet, ai piedi del Sinai, fa del celebre episodio biblico che vede il profeta salire sul monte sacro per raccogliere le tavole della legge. Ma è anche un viaggio inconsueto quello della famosa coppia di alpinisti friulani nelle terre della bibbia: alte quote sì, ma dello spirito; cinque giorni sulle tracce dell'Esodo, raccontati da Nives Meroi nel libro "Sinai" (Fabbri editore), un racconto a due voci insieme al teologo Vito Mancuso.

Due voci molto diverse per due storie molto diverse: quello di Nives è il racconto del presente, che si sofferma sui colori, sulle persone che incontra, e che si lascia affascinare dalle loro storie. Come quella dei nomadi, per esempio, che hanno rifiutato di trasferirsi a Sharm in un villaggio costruito per loro con tutte le comodità: "Chi glielo fa fare!" scrive Nives "A casa loro, il deserto, hanno tutto lo spazio che vogliono. Una vita libera. (...) Non vogliono diventare come noi perché a noi è stato rubato il tempo."
 
Ma che cosa rimane oggi di quello spazio e di quel tempo sacro, che ha plasmato il nostro immaginario e la nostra civiltà'? "Premetto che sono assolutamente ignorante del valore religioso così complesso di questa montagna" aggiunge Nives "e infatti mi ha stupito trovare in cima cinquecento ragazzi egiziani musulmani, non sapevo che fosse sacro anche per la loro religione". In effetti, non tutti conoscono il valore religioso del Sinai per l'Islam, ma gli oltre tremila gradini scavati nella roccia che costituiscono la via di salita più impegnativa - "Che la guida non ci ha fatto percorrere in salita non sapendo se fidarsi" racconta Nives - furono percorsi dal cavallo di Maometto per portare il profeta in cielo. "Diciamo che ho fatto fatica, in quel momento, a immaginare Mosé, le tavole, e tutto quello che conosciamo del Vecchio Testamento. La spiritualità sicuramente si può vivere su qualunque cima, che sia un ottomila o il Sinai, ma devo dire che qui non ho colto particolarmente il legame con la nostra religione. Forse perché non occhi giusti per vedere (...), come molte persone del mio tempo ho sentito dire che Dio è morto ma nella frenesia di tutti i giorni non mi sono mai domandata perché."

  Ma, in fondo, non è una questione di luoghi fisici: Vito Mancuso approfondisce verso la fine del libro la questione geografica del monte Sinai e riporta come in realtà tra gli studiosi non vi sia alcun accordo su dove effettivamente questa cima si trovi. In Egitto? In Arabia? Nel deserto del Negev? In fondo poco importa, perché "Avvenuta o non avvenuta al modo in cui ne parla la bibbia, la chiamata alla liberazione attraverso il deserto e il conseguente impegno nel rispetto della legge e della giustizia è un archetipo universale che riguarda ogni essere umano. (...) Il monte Sinai, quindi, da luogo storico o geografico appare per quello che realmente è: Il luogo dove può nascere o morire la libertà."

Libertà e disciplina: anche Nives ne parla in questo libro, a proposito di alpinismo: "in particolare mi riferisco al versante Nord del Karakorum, dove si è completamente isolati e si deve essere autosufficienti dal punto di vista fisico e psicologico. Ci vuole quindi una disciplina personale ma anche collettiva, se si è in gruppo: se da una parte muoversi in questi ambienti è sinonimo di grande libertà, dall'altra occorre disciplina nel raggiungere l'obiettivo comune che, prima di tutto, è quello di tornare sani e salvi, poi eventualmente anche raggiungere la cima. Ecco perché parlo di cordata come alleanza, un rapporto in cui ci devono essere regole pienamente accettate e condivise da tutti." 

Un'alleanza fortissima quella di Romano Benet e Nives Meroi che, come tutti sanno, hanno raggiunto la vetta del Kanchenjunga lo scorso maggio. Non ho potuto fare a meno di chiederle di condividere con noi anche solo un piccolo episodio di questa salita "privata": "In realtà avevo chiesto di mantenere una spedizione silenziosa perché volevamo che fosse un'esperienza completamente nostra, da poter gustare momento per momento come una coppa di gelato" racconta Nives "E così è stato, per fortuna. Io e Romano siamo stati da soli con i nostri amici, e non abbiamo avuto nessun genere di interferenza. Sicuramente fenomenale è stato il momento della cima, perché siamo arrivati un giorno prima degli altri, che si erano fermati un campo sotto, ad aspettare che calasse il vento e che gli sherpa attrezzassero la via. Noi invece siamo partiti e siamo arrivati. Romano, tra le tante vicissitudini di tutto questo periodo, era anche reduce da un intervento di protesi all'anca e non sapevamo come avrebbe reagito... Così, quando siamo arrivati in vetta ho immaginato che lanciasse nel vuoto la vecchia anca... per liberarsi anche di quest'ostacolo. Sicuramente abbiamo vissuto in maniera speciale il fatto che lassù eravamo soli, ma in realtà con noi c'era il "fratello genetico" di Romano (sottoposto a due interventi di trapianto di midollo dopo che, nel 2009, gli venne riscontrata una rara patologia ematica ndr), che sicuramente stava imprecando e chiedendosi dove diavolo lo stessimo mai portando."

Nives è felice, si vede dagli occhi che sprizzano gioia, ma mi chiedo e le chiedo: è vero che, in fondo, c'è un filo di malinconia nel fatto di aver raggiunto la cima? "E' un pensiero romantico ma... no direi di no" e ride a questa domanda "parlerei piuttosto di una gioia moderata, anche perché in cima si è solo a metà, bisogna scendere poi, soprattutto dal Kanch, che è bello tosto e fino a che non si è al campo base è sempre bene mantenere l'attenzione. Ma si è felici in cima, anche solo per il fatto di aver finito la salita, che è una bella fatica!"

Il Kangchenjunga è il loro dodicesimo ottomila. Dopo aver salito così tante tra le montagne più alte del momento, c'è ancora gusto a fare una gita semplice, a camminare per il gusto di farlo? "Accidenti! No no, è sempre bello, mi piace anche solo correre con il cane in mezzo ai boschi! Gli ottomila non sono una droga, quello che è bello è lo stare in montagna, in tutte le stagioni, magari anche nelle giornate piovose d'autunno, anche queste hanno il loro fascino. No, non mi sento ancora assuefatta solo per aver salito gli ottomila..."

Dal Kangchenjunga al Sinai, l'avventura di Romano e Nives continua, con il loro stile: "arrivare in cima in punta di piedi, dare un'occhiata attorno e togliere subito il disturbo".

Simonetta Radice



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