La Grande Bellezza

Piccolo requiem per Marco Anghileri, per mio fratello e per tutti gli altri. Di Christine Kopp
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Marco Anghileri, Cima del Costanza
M. Anghileri
Un giorno immensamente triste. Abbiamo appena avuto la notizia che un amico, l’alpinista giovane più innovativo della città, è scomparso sul Monte Bianco – anche se poche ore prima sembrava che avesse già compiuto con successo la sua solitaria invernale di una via difficile. Gli sms, le telefonate, le informazioni in internet e i post su facebook si susseguono rapidamente, si incrociano, si contraddicono – scompiglio e confusione, finché è chiaro: Marco è morto. Tutto ad un tratto regna il silenzio ed un abisso si apre.

È arrivato, un’altra volta, il momento in cui il mio amore per la montagna viene messo a dura prova. Penso a Marco, alla sua famiglia. Penso a lui, che poi non conoscevo così bene. Me lo immagino girovagare da solo, lassù, tra il granito rosso e le creste bianche. Mentre ripartiva, ancora e ancora, alla ricerca di quella solitudine e di quell'isolamento, per poi tornare e raccontare della bellezza della montagna come l’aveva vissuta, tutta da solo. In quel posto dove era in pace con se stesso. Nell'ambiente di cui aveva bisogno per vivere - specialmente quelle sue montagne di casa che percorreva in lungo e largo, di giorno e di notte – nonostante a casa avesse una famiglia con due bambini piccoli che lo aspettava, che lo amava e che lui amava.


Faccio su lo zaino e parto triste per liberarmi di tutti i pesanti pensieri. La meta – una cimetta in valle, facile ed accessibile con gli sci. Con una vista unica su altre montagne e sul lago, con tanto spazio ed aria per camminare e riflettere. Pochi passi, e lo so di nuovo, di certo: anche dopo quest’ulteriore colpo del destino tornerò sempre in montagna. Non per ultimo per la loro bellezza che inonda i miei occhi e la mia anima. Penso ad altre immagini ed esempi di questa "Grande Bellezza” con la maiuscola di cui dovrei scrivere, proprio in questi giorni, per una rivista. Il mio testo sarà diverso da quello che avevo in testa qualche giorno fa.

Monte Bianco. So perché Marco era affascinato da quel massiccio. La sua bellezza è struggente per chiunque ami le montagne. Contrasti audaci – roccia, neve e ghiaccio –, forme in filigrana e fragili accanto a delle pareti poderose e selvagge, e tutto un po’ più impetuoso che altrove sulle Alpi. Mi ricordo della nostra arrampicata sul "Roi du Siam”, guglia vicina al leggendario Grand Capucin. Non dimenticherò mai la sua cima, simile ad un becco d’uccello: una formazione di roccia talmente sorprendente che può essere solo definita un capolavoro della natura. E dietro di essa l'incredibile parete est del Grand Capucin, un oceano di granito in cui si perde l’occhio. Avrei potuto guardare ed ammirare per delle ore. Il Grand Capucin stesso come quella torre satellitare, il Trident. Se da sotto, dal ghiacciaio, sembra innocua e inoffensiva, da più in alto – più uno sale sul Grand Capucin – si staglia sempre di più dall’ambiente circostante e dal cielo. Una torre di roccia di una impertinenza pittoresca e con pochi eguali. C’è però un’altra montagna nel massiccio del Bianco che la supera alla grande per la sua arroganza estetica: l’Aiguille Noire de Peuterey che si alza sopra la Val Veny come una fiamma diventata roccia che ti toglie il fiato.

Le immagini nella mia testa si rincorrono, vanno all’arrampicata su ghiaccio. Una disciplina che mi preoccupa sempre un po‘ – il freddo, la forza che ci vuole, le altre cordate che potrebbero metterti in pericolo e le condizioni non sempre facili da valutare. Ma dall’altra parte, mi affascina. E così parto ancora dietro al mio uomo per vivere la bellezza di queste strutture effimere e scoprire altre formazioni mai viste prima. A parte il bellissimo ghiaccio a cavolfiore, come viene chiamato dagli arrampicatori, ogni tanto si incontrano delle formazioni che sembrano onde d'acqua diventate ghiaccio, altre volte il ghiaccio si apre in dei grandi fiori, qualche volta è solo duro e liscio. Se parliamo di fiori: indimenticabile la piccola cascata sulla quale abbiamo trovato un enorme fiore secco rimasto imprigionato nel ghiaccio. Un soffio, una promessa di estate catturata nell’aspro freddo ghiacciato.

E poi il Monte Bregagno che abbiamo salito anche quest’inverno con gli sci. Un amico recentemente mi ha detto che secondo lui, il Bregagno sopra il Lario offriva una delle escursioni scialpinistiche più belle del mondo. Questo amico ha viaggiato tanto, dall’Africa all’Asia fino in America. Sono d’accordo con lui. Ogni volta che traccio le mie curve su questa montagna, sono semplicemente felice. I suoi dossi di neve che cadono giù verso il lago, con i suoi paesi pieni di vita e di bar, belle ville e camelie in fiore. La vista dalle cime bianche del Monte Rosa al Legnone e Grignone. Sotto, il verde della primavera vicino all’acqua. Impressioni straordinarie, grandiose immagini per gli occhi, divertente parco giochi per il corpo, infinito spazio per l’anima e lo spirito e tanta, tantissima aria per respirare.


Giovedì scorso un mare di gente ha preso congedo da Marco. La basilica e il sagrato pullulavano di amici, ammiratori, rappresentanti di tutte le associazioni alpine, guide di montagna, politici e cittadini che volevano rendere onore a Marco e alla sua famiglia. Gli arrampicatori incalliti e gli alpinisti con i visi abbronzati dal sole di marzo nascondevano il loro sconvolgimento dietro occhiali da sole italiani, eleganti e sportivi nello stesso tempo. Tanti tra loro, me inclusa, probabilmente avevano dovuto mettere in discussione il loro amore per la montagna nei giorni precedenti. Per poi ripartire lo stesso per le alture, come condannati, ossessionati da un grandissimo e bellissimo amore. Ma anche un amore – come tutti i grandi amori – rischioso e pericoloso.

Marco, forse, avrebbe sorriso e sarebbe rimasto sorpreso da quella folla. I suoi bambini ridevano e piangevano. Sua moglie appariva contenuta e coraggiosa. Che altra scelta aveva? Sua mamma non aveva più lacrime, suo papà celava la sua tristezza abissale per la perdita del figlio dietro un’amarissima ironia. E il prete raccontava dell’ultimo messaggio che Marco aveva mandato dal bivacco ad un suo amico; scriveva della notte fredda e ventosa, ma aggiungeva che tutto andava bene e che sarebbe salito in cima il giorno dopo. E poi: "Sono nel posto più bello del mondo.” Marco, così lo percepiva: si trovava nel posto più bello del mondo, in mezzo al massiccio del Bianco, in una piccola tenda su un piedistallo nell’universo di granito del Pilone Centrale del Frêney. Lassù era felice – colmo e pieno della Grande Bellezza della montagna.

Era felice in mezzo a quella bellezza selvaggia. Così come il mio caro amico dopo un’arrampicata, e prima di cadere in falesia e risvegliarsi paralizzato. Così come il mio adorato fratello alle sue ultime curve nella neve fresca prima di staccare la valanga che avrebbe cancellato tutto.

Le ultime parole di Marco al mondo esterno sono state: "Sono nel posto più bello del mondo."

Una consolazione? Sì, una consolazione per noi condannati all’amore per la montagna.

di Christine Kopp

17/03/2014 - Marco Anghileri ci ha lasciati 
18/03/2014 - Per Marco Anghileri




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