Paolo Rabbia e la sua grande traversata invernale dei Pirenei con gli sci

Dal 22 gennaio al 19 febbraio 2014 Paolo Rabbia ha compiuto la traversata con gli sci dei Pirenei. Una grande avventura solitaria per un viaggio indimenticabile.
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Paolo Rabbia e la sua grande traversata invernale dei Pirenei con gli sci
Paolo Rabbia
Tutto da solo. 700 chilometri con gli sci in 29 giorni. Un viaggio dal Mediterraneo all'Atlantico attraversando la catena dei Pirenei, con partenza dal Pic du Canigou per arrivare al Pic de Orhy. 10 ore di "marcia" al giorno con punte di 16 per superare 32.000 metri di dislivello positivo, 3000 dei quali con gli sci in spalla. Ma questa manciata di numeri forse non basta per spiegare il grande viaggio solitario di Paolo Rabbia. Piuttosto bisognerebbe parlare di esperienza irrinunciabile, di fatica, di voglia di arrivare, di incertezza, di rischio e di distacco dalla quotidianità. Insomma di quella ricerca, mista ad un insopprimibile bisogno, che ti fa partire verso una meta difficile ed "impossibile" quanto "inutile" ed apparentemente insensata. Anzi ti spinge sempre a ripartire visto che per Paolo Rabbia, questa traversata invernale dei Pirenei con gli sci, arriva a 5 anni dalla sua grande avventura, sempre d'inverno e sempre con gli sci, della sua traversata delle Alpi. Quale motivazione c'è nel profondo di un viaggio del genere? E cosa resta dopo? Di questo ci ha parlato lungamente Paolo al telefono, dimenticandosi dei numeri e delle performance fisiche… Abbiamo parlato di incertezze e di natura e della bellezza, di quella bellezza che, come un respiro, ti entra dentro.

TRANSPIRENAICA di Paolo Rabbia

Dopo 29 giorni passati a marciare da soli c’è da augurarsi di avere qualcosa da dire: altrimenti significa che le cose non sono andate per il verso giusto. Personalmente non trovo grande ispirazione nelle storie lasciate a metà, come un viaggio non compiuto o una scalata che non raggiunge la cima. La mia “avventura” me la vado ad immaginare sullo spartiacque che sta tra le cose che si sa di poter fare – e che poi si è obbligati a colorire di incertezza per renderle interessanti – e quelle che sono troppo al di sopra delle proprie possibilità – e che poi ti fanno dire che quello che conta non è la cima ma il cammino che ti porta ad essa. Questa via di mezzo è così personale che non ho altra scelta in questi casi che affrontare la questione da solo.

La traversata dei Pirenei è stata molto più solitaria di quella delle Alpi di cinque anni fa: allora – specie alla fine, con l’approssimarsi delle montagne di casa – avevo passato diversi giorni (circa un quarto) sciando con amici vecchi e nuovi. Stavolta nessuno, se si eccettuano un incontro casuale e un tratto con un amico alpinista basco: in tutto quattro ore. Di più: le Alpi per noi hanno un che di familiare anche solo al conoscerne la storia; i Pirenei, con quelle località dai molti nomi (catalano, castigliano, francese, basco), fanno di tutto per disorientarti. E se non basta ci provano con la nebbia, con il vento, con quelle bufere che arrivano dall’oceano e che la neve te la mettono subito pericolosa. Inutile chiedere consiglio alla gente del posto: nel cuore dell’inverno, con gli sci, questi posti li conoscono in pochi. Eppure nella bella stagione i Pirenei sono battutissimi: per attraversarli da un mare all’altro arrivano camminatori e ciclisti da ogni dove. Le cime poi non hanno molto da invidiare a quelle delle Alpi Orientali. Non a caso da qui proviene la crema degli alpinisti spagnoli, quelli che poi vanno a fare cose strabilianti in Himalaya.

Da solo, dunque; affidandosi molto al fiuto e alla voglia di faticare. Una voglia che cresce col passare dei giorni fino a diventare superflua, quando finalmente l’uomo abitudinario - che ognuno è a casa propria - trova anche qui una sua routine. Ecco che la giornata si semplifica, con quelle quattro cose essenziali – alzarsi, mangiare, mettersi in marcia, cercare di arrivare da qualche parte al caldo per la notte – che ti fanno sentire veramente libero. E anche, finalmente, un po’ più prossimo alla natura che hai attorno.

Difficile pianificare una sequenza del genere. Come allenarsi a marciare e sciare per dieci, anche quindici ore un giorno dopo l’altro, per 700 chilometri, oltretutto con venti chili di zaino? Io ho fatto tutta la vita sport di fatica – anche per mancanza di altri talenti – e dai miei molti maestri ho imparato che senza rifornire regolarmente il motore (di acqua e cibo, intendo) non si va lontano. Non so perché, però, quando mi imbarco in questi viaggi prendo la malsana abitudine di non bere né mangiare durante la giornata: è il mio modo di entrare in un’esperienza solo mia, ma che conosco e che non mi disturba affatto. Va’ da sé che tutto il tempo delle soste lo passo ad ingozzarmi senza ritegno, mentre al posto della tovaglia ho la mappa del giorno seguente.

Anche se mi sforzo di studiare attentamente le curve di livello, di segnarmi quote e punti cardinali (con l’inestimabile aiuto dell’amico Bernini che da casa mi segue sul computer), la giornata si svolge sempre all’insegna dell’incertezza: sarà il colle giusto? a quest’ora non dovrei già essere in discesa? se qualcosa va storto sono capace di tornare sui miei passi? posso permettermi di tagliare questo pendio?

Con questa incertezza meglio imparare a conviverci subito, tanto è inevitabile. Un po’ come l’insicurezza: visto che si è in montagna, con una natura tanto preponderante, perché cercare la sicurezza a tutti i costi, a rischio di farsi trovare impreparati agli imprevisti, quando si può usare l’insicurezza come stimolante di tutti i nostri sensi, in grado di tenerci sempre in allerta? E pazienza se non ci si gode appieno il paesaggio e si fa qualche foto in meno. Meno rigore, meno certezze, più improvvisazione: la traversata come un concerto jazz.

Ma la montagna - la natura, in generale - come una grandiosa opera classica: immutabile a dispetto del tempo che passa, sempre capace di ispirare e commuovere. Sei venuto quassù come un ladro in chiesa, per arraffare qualcosa e dartela a gambe; è solo dopo, quando torni a casa e l’hai fatta franca, che pensi che forse avresti anche potuto fermarti a dire una preghiera.

Paolo Rabbia

La traversata si è svolta dal 22 gennaio al 19 febbraio, con partenza dal pic du Canigou sul versante mediterraneo ed arrivo al pic de Orhy su quello atlantico. Si tratta dei due estremi della catena sopra i 2000 metri. Oltre ad essere due quote simboliche sono anche in inverno i limiti sciabili dei Pirenei, in quanto poi la quota che scende decisamente e la vicinanza del mare rendono improbabile un percorso sciistico. I chilometri percorsi - da una stima personale basata sul tempo impiegato in alcuni tratti di percorso di cui era nota la lunghezza - sono stati 700, con una punta di 48, ad una quota compresa tra i 900 e i 2700 metri. Il dislivello positivo è stato di circa 32.000 metri, 3.000 dei quali sci in spalla. Non sono stati utilizzati locali invernali dei rifugi, spesso disagevoli o mancanti di legna, quando non addirittura di stufa, prediligendo scendere ai (pochi) rifugi custoditi o ai villaggi abitati in inverno. Il tutto ha significato un surplus di ore di marcia, che alla fine sono state in media 10 al giorno, con punte fino a 16. Il tutto senza alcun tipo di appoggio o rifornimento.
E' stato utilizzato un prototipo di sci in carbonio progettati e prodotti interamente in provincia di Cuneo, alla Aski di Mondovì.Attacchi ATK. Scarponi F1 Scarpa. Pelli senza colla Geko (un solo paio per l'intera traversata!). Cito questi dati perché reputo questo tipo di raid un banco di prova dove non è possibile bluffare con l'attrezzatura. Lo zaino, opportunamente modificato per poter essere trasportato anche con una fascia sulla fronte (alla moda, ad esempio, degli Sherpa), pesava alla partenza 20 kg, 18 all'arrivo una volta esauriti i reintegratori energetici e il gas. Io invece pesavo 67 alla partenza e 64,5 all'arrivo. Ma sto ricuperando rapidamente grazie alla cucina di casa.




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