L'ambiente, l'arrampicata, l'alpinismo e il futuro. Una riflessione di Elio Bonfanti

Riflessioni, sull'ambiente e sull'utilizzo dello stesso legato alla pratica dell'arrampicata e dell'alpinismo, fatte da un chiodatore quasi pentito che in trent'anni di attività ha aperto forse troppe vie nuove. Di Elio Bonfanti.
Il brusio di fondo aumenta sempre di più, si vocifera, si discute, I blog si riempiono di polemiche viva gli spit, abbasso il trad, viva l’ artificiale abbasso le solitarie estreme, sembra di parlare di politica dove tutti sono scontenti ma alla fine nessuno, se non pochi, si danno davvero da fare per far cambiare le cose. Ho avuto modo di rileggere a 31 anni di distanza un illuminate articolo di Giampiero Motti che era in qualche modo visionario. Ve ne allego uno stralcio tanto per capire di cosa sto parlando.

Scandere 1983: ... “ragionamento da vecchio, che odia i giovani perché non è più in grado di fare quello che fanno loro». oppure ancora le solite analogie con la vecchia favola della Volpe e dell'Uva. Qualcosa del genere ogni tanto mi è già giunto all'orecchio. Lascerò naturalmente cadere le provocazioni, come ho sempre fatto d'altronde in questi anni, ma mi permetto soltanto di citare un motto (non certo di Motti...!) latino «Obsequium amicos, veritas odium perito (Teramo - Andria, atto I), l'adulazione procaccia amici, la verità s'attira l'odio. E nemmeno voglio passare per un amante del rischio, nemico di coloro, che rendono sicuri i punti di fermata in palestra. Trovo idiota e senza senso rischiare su dei chiodi a pressione mal piantati: se serve un chiodo a pressione od uno spit, lo si pianti a dovere in modo che dia tutte le garanzie di sicurezza. In questo senso onore al merito al lavoro che è stato fatto a Foresto. Ma il mio discorso è più sottile e chi lo ha voluto capire lo ha capito: è l'estensione di questa mentalità che mi preoccupa, perché porta l'arrampicatore ad una sorta di illusione, ponendolo poi in situazioni fortemente critiche quando si verrà a trovare di fronte a vie schiodate (non sempre i nuts possono sostituire un chiodo), all'eventualità di attrezzare un punto di fermata difficile o peggio una calata in corda doppia, al cui ancoraggio affidiamo tutta la nostra esistenza, ottavogradisti o terzogradisti che si sia. A volte cercare troppo la sicurezza può portare proprio al contrario nel risultato: l'intento è in buona fede, ma alla fin fine produce l'effetto negativo di illudere disabituando al pericolo, che in montagna, non dimentichiamolo, esiste sempre. Accanto a palestre attrezzate come l'Orrido di Foresto, magnifica scuola di arrampicata atletica e spettacolare di cui nessuno si sognerebbe di negare il valore vi dovrebbero essere altre palestre tenute poco chiodate o del tutto schiodate, dove l'arrampicatore possa prendere coscienza della difficoltà emotiva e della reale presenza del pericolo. Questo almeno è il mio punto di vista: Foresto dovrebbe restare un caso particolare, non certo da proporre come modello universale. Mi pare di essere stato chiaro.” ... Torino - Dicembre 1982 - 'Absit iniuria verbo'."

Alla luce di questo scritto alcune riflessioni non possono che sorgere spontanee. La prima da dove veniamo, la seconda dove siamo, la terza dove stiamo andando. Il da dove veniamo si è macerato a lungo in retoriche pastoie legate all’accettazione del fatto che arrampicando si poteva fare anche un qualcosa di diverso dall’Alpinismo. Cioè che si poteva, senza per forza indossare i pantaloni alla zuava, arrampicare su terreni più o meno addomesticati rinunciando talvolta anche alla vetta e perseguendo il solo obbiettivo della prestazione. Restando in Italia, personaggi del calibro (cito i primi che mi vengono in mente non me ne vogliano gli altri) di Bernardi, Bini, Manolo, Mariacher, Pederiva, hanno in qualche modo preceduto ed accompagnato questo progressivo cambiamento che è avvenuto procedendo dall’alto verso il basso, nel senso che questi uomini, prima che alpinisti in un'osmosi continua hanno, per un certo numero di anni, trasportato la mentalità della montagna in falesia ed in montagna quello che sperimentavano in falesia creando talvolta dei veri capolavori. Oggi succede il contrario si nasce e si cresce in falesia e solo qualcuno allarga poi i propri orizzonti sviluppando la propria attività in montagna.

Questa attuale cultura ci ha proiettati in un esponenziale aumento delle difficoltà accompagnato in questi ultimi anni dal proliferare di nuove falesie e di una sistematica chiodatura a spit della quale forse oggi stiamo perdendo la misura. Oggi con tutto sommato pochi soldi ed un trapano chiunque è in grado, trovato uno sperone qualsiasi, di attrezzare una nuova via di arrampicata, talvolta senza avere il minimo criterio di come chiodare, di dove chiodare ma soprattutto se chiodare. Il primo esempio che mi viene in mente è San Vito lo Capo recente e meravigliosa meta arrampicatoria in Sicilia, dove c’è la falesia di Salinella che è lunga almeno tre chilometri quasi tutti scalabili. Bene, vi sono tre siti del paleolitico posti in tre grotte che su tre chilometri rappresentano forse duecento metri di sviluppo lineare, ecco siamo riusciti a chiodare pure lì dentro. Perché!? Perché forse non c’è una legge. Perché forse manca del buonsenso. O forse perché noi arrampicatori siamo ancora lontani dal pensare davvero all’ambiente.

Proteggiamo i rapaci, l’orso bruno l’Upupa striata e il pinguino delle Galapagos ma dell’ambiente dove questi vivono ce ne freghiamo altamente. In Sicilia è così, In Sardegna altrettanto, l’Italia è purtroppo una terra di conquista senza regole, anche in questo ambito. In queste zone frotte di chiodatori stranieri arrivano e si chiodano le loro belle falesie senza chiedere niente a nessuno. Mi piacerebbe vedere se uno qualsiasi di noi andasse nel Kaisergebrige (un posto a caso) a chiodare qualcosa con quale misura di pallettoni lo prenderebbero a fucilate. Qui da noi nessuno dice nulla sia nel merito che tantomeno sul metodo ma se è vero che da secoli siamo abituati alle scorribande di chiunque è altrettanto certo che è arrivato il momento di fare il punto della situazione.

Tornando dalle mie parti, nelle Alpi occidentali oggi ci sono fix veramente dappertutto ed ogni metro quadro di roccia benanche sprofondata nel fitto della boscaglia ha il suo bel tiro di corda. La maggior parte delle falesie sono iper sature di itinerari, in certe località i tiri sono a pochi metri l’uno dall’altro e una volta chiodati nella maggior parte dei casi nessuno si occupa della loro manutenzione. Fatto salvo qualche caso dove il “local” di turno, esercitando un discutibile “Ius soli”, decide che le vecchie vie erano tutte brutte le schioda e ci ri-traccia sopra le sue, “nuove”, cambiandone magari i nomi, senza nemmeno pensare che erano già state censite su delle guide...

Questo in nome di cosa, della bella arrampicata, del fatto che nessuno frequentava più la tal falesia o piuttosto perché il nostro ego ci porta a voler lasciare ai posteri la nostra firma. Chi ha detto che un posto debba essere per forza frequentato e che perché lo sia, si debba tempestare di tasselli dappertutto. Siamo all’anarchia più totale e se qualcuno richiama questi personaggi al tenere in considerazione la storia del luogo e a ricordarsi di chi su quelle rocce si era spellato le dita prima di loro, viene tacciato di essere un retorico povero pirla.

Purtroppo nessuno, o pochi, tengono in considerazione il fatto che un fix inox è per sempre! La maggior parte dei tasselli sino ad ora piantati sopravviveranno a chissà quante generazioni di arrampicatori e, se ognuno di questi dovesse sovrapporre la propria traccia a quella esistente, immaginate che selva di buchi e quanta ferraglia ci sarebbe sparpagliata per il globo. Con questa filosofia quale vecchia via non meriterebbe una raddrizzata ed una sistemata in ottica moderna per migliorare "il gesto".

In alcune parti del mondo sono nate delle "no bolting Zones" da noi non ancora, ma qui la scommessa ora sta nel “manutenzionare” ciò che già c’è, piuttosto che andare a cercare il nuovo ad ogni costo, ed in questo sarebbe bene che le varie amministrazioni comunali prendessero coscienza del loro territorio e si interessassero in modo fattivo alla conservazione dell’integrità dello stesso. E, badate bene, non si tratta di finanziare opere e di assumersi rischi civili e penali, a questi ci pensano già inconsapevolmente i chiodatori (e già solo questo basterebbe ad aprire una parentesi enorme).

Purtroppo, quantomeno dalle mie parti, questa cultura “Falesistica” si sta pian piano spostando e sta contagiando anche la montagna dove, ricollegandomi allo scritto di Motti, sono persuaso del fatto che chiodare anche solo le soste di una via, alteri la percezione della reale difficoltà dell’itinerario. “Osa, osa sempre e sarai simile ad un dio” recitava Giusto Gervasutti ma chi osa davvero su una sostaccia a chiodi, chi osa veramente su dei tiri poco protetti o meglio poco proteggibili? Pochissimi i soliti pochissimi, quelli bravi davvero (ed il sottoscritto non è parte di questo novero). Ma anche tra questi, quanti sono realmente capaci a piantare un chiodo, uno solo e a calarcisi sopra? In tanti anni di militanza nelle scuole di alpinismo non l’ ho mai potuto insegnare a nessuno. Per questione di tempo, di metodo, di tempi! Era ed è diventato inutile far comperare il martello agli allievi in quanto i chiodi dove li avrebbero poi piantati se le vie sono tutte a spit. Al punto che anche molti professionisti della montagna il martello ormai lo usano solo per mettere i quadri in casa.

Domani è adesso, ed oggi è necessario che i veri big e le istituzioni, C.A.I, C.A.A.I e guide alpine inizino a fare cultura sull’ambiente per consegnare alle prossime generazioni un campo di gioco non troppo deteriorato. Oggi, la via al Torre si fa in libera, senza più usare i chiodi a pressione di Maestri, per carità non voglio assolutamente avvallare la schiodatura di questo monumento dell’alpinismo, ma di fatto, sia pur di rottura credo che questo possa essere considerato un vero salto in avanti. Le solitarie di Marco Anghileri, di Hansjörg Auer, di Rossano Libèra e di Ueli Steck non sono certamente imprese da emulare ma certamente stanno a testimoniare il livello raggiunto oggi attraverso quel percorso abbozzato trent’anni fa. Proprio da questo si dovrebbe partire a pensare che probabilmente non è necessario, in nome della sicurezza, attrezzare le soste o peggio ancora vie dappertutto. Forse non è ancora tutto perduto, ed il buonsenso non è ancora stato travalicato, vie dove le soste si possono allestire in modo “ sicuro” con mezzi tradizionali ce ne sono ancora, conserviamole ma facciamolo adesso e magari, noi normali, al posto di osare su una via super protetta, come dice un mio caro e “retorico” amico abbassiamo il grado.

Elio Bonfanti



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