Sete d'Oriente al Castello Provenzale, altra tappa del viaggio di Ivo Ferrari sulle più belle vie d'Italia

Ivo Ferrari continua il suo viaggio sulle più belle vie d'arrampicata d'Italia. Questa volta la sua strada ha incrociato Sete d'Oriente, la via aperta il 12 Febbraio 1984 da Januse Budzeiko, Daniele Caneparo, Krzysztof Dudzinski e Maurizio Oviglia sulla parete della Torre Castello sulla Rocca Provenzale (Valle Maira, Alpi Cozie). Il report di Ivo Ferrari e il racconto di Maurizio Oviglia dell'apertura.
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Chiappera e la sua Roccia
archivio Ivo Ferrari
Mi sto divertendo parecchio. Questo “viaggio”, o meglio questa idea di ripetere alcune belle vie in giro per l’Italia, non è solo trazioni o fiato, ma molto “mentale”. Sto cercando grazie all’aiuto di amici di conoscere quello che prima era un “sentito dire” o “letto”. Sto conoscendo stili e personaggi , uomini che amano le loro montagne , disposti a viaggiare ma sicuri di voler tornare nel luogo che amano di più, nella loro Valle preferita...
Non ho nemmeno iniziato quello che mi gira in testa e sono già felice, ho per cosi dire già “imparato” tanto, potrei incominciare a ringraziare un bel po’ di persone, da quelle che si alzano presto per partire con me, a quelle che mi lasciano alzare, da chi “crede” in una cosa semplice, un gioco “nostrano”, a chi senza nemmeno aver incrociato i miei occhi, mi informa delle condizioni e mi aiuta nella “logistica” del luogo, a quelli che per ragioni sconosciute, ma umanamente risapute, criticano un'idea.
Voglio ricordare che tutti i partecipanti sono “alpinisti del fine settimana” me compreso, e rispettando regole non scritte in montagna ci vanno quando possono, divertendosi a più non posso! Ma è presto, c’è tempo per stringerli tutti in un grosso abbraccio, il “giretto” è appena iniziato. Buon divertimento.



APERTA D’INVERNO, RIPETUTA D’ESTATE di Ivo Ferrari

C’è ancora parecchia neve in giro, il Caldo non si è ancora impadronito del giorno, ma la voglia di ritornare in Val Maira mi spinge con qualche scusa a convincere Dario (Spreafico ndr) ad accompagnarmi. Partenza in piena notte, l’idea è chiara nella mia testa, voglio salire lungo Sete d’oriente, la linea aperta da Maurizio Oviglia e Compagni nel lontano Inverno del 1984. Ho osservato “Sete” dal basso, l’ho guardata mentre arrampicavo al suo fianco, bella, bellissima linea lungo una logica sequenza di lame e fessure, diritta verso il cielo, come piacciono a me!
Lasciamo la macchina nel parcheggio del Rifugio Campo Base appena fuori il piccolo paese di Chiappera, il giorno sta per nascere e la luce aiuta la “voglia” d’incamminarsi attraverso il simpatico sentiero che porta al colle Greguri, sotto la parete Est della Rocca. Chiazze di neve ci obbligano a brevi varianti, la macchina fotografica incamera immagini, il posto è silenzioso e “particolare”, è entrato da poco nella mia testa, passando direttamente dal Cuore, è bastato leggere il vecchio e sempre attuale “100 nuovi mattini” di Alessandro Gogna e alcune “classiche” del posto sono entrate a far parte delle mie giornate.
Ho promesso a Dario e Marinella, i miei figli, che ci saremmo ritornati, e sicuramente a piccoli passi si ritroveranno a giocare col Vento che attraversa il colle. Ma ora è presto, la neve amplifica ancora di più l’isolamento del luogo, il paesaggio si sta, piano piano, risvegliando dal letargo invernale, timide Marmotte e fiorellini colorati, l’aria è ancora fresca, pungente...
Immergo le mani nel sacchetto della magnesite e inizio a salire, le braccia vanno subito a pieno regime, la verticalità qua la fa da padrona, appigli netti, fessure, una roccia da favola, niente deviazioni, su diritti lungo un pilastro dai mille colori, ci alterniamo su lunghezze bellissime!
L’unico difetto dell’arrampicata nel gruppo Castello-Provenzale è la sua brevità, ma è sempre cosi, le cose belle finiscono quasi subito, “forse” non siamo mai contenti, non sappiamo mai apprezzare questi doni. O “forse” la sua mediocre lunghezza, rende le torri del Castello - Provenzale “uniche”, qui si respira una particolare aria di Montagna. Ci si può divertire senza dovere contare le lunghezze di corda, la sua Quarzite è ricca di storia, grandi e piccoli nomi dell’alpinismo hanno saputo cogliere a pieno il “dono”.
Sulla cima mi soffermo a guardare l’orizzonte, il mio sguardo viene rapito da montagne che non conosco, la neve evidenzia spigoli, diedri e canali, sono appagato, il libro di vetta accetta i nostri due nomi, la discesa è sicura e rapida …
Un bel po’ di chilometri ci separano da casa, ci incamminiamo verso la macchina lentamente, il Cielo emette quella strana luce che sta tra l’inverno e la primavera... forte! Mentre scendo vedo passarmi accanto velocemente il “ pensiero”, lui ha sempre fretta è già rientrato e sta giocando con i bambini...
Un ringraziamento particolare va a Lorena Torta, amica innamorata delle sue Montagne e a Maurizio Oviglia, sempre gentile e disponibile.

Ivo Ferrari


SETE D’ORIENTE di Maurizio Oviglia

Torino d’inverno è un acquerello triste ed incolore che ricorda certi quadri impressionisti di Parigi. Gli alberi spogli allungano le loro dita nere verso il cielo grigio, mentre la gente si affretta a salire sui tram e sui pulmann, con il terrore di fare tardi in ufficio. Parlano di Torino come una città operaia perché qui c’è la Fiat, una fabbrica che dà lavoro a più di centomila persone. In effetti quasi tutto a Torino ruota attorno alla Fiat: una piccola crisi di questa fabbrica lascerebbe senza lavoro centinaia di famiglie. Sono nato in questa città e sin da studente mi sono abituato alle ore in pulmann necessarie per raggiungere la scuola e poi il posto di lavoro, in silenzio, con lo sguardo perso nei vetri appannati, oppure scrutando tra i pensieri di decine di pendolari.
Un giorno poi sono entrato a lavorare in fabbrica, impacchettavo risme di carta nella cartiera di mio zio. All’inizio ci andavo in bicicletta, sedici chilometri ad andare e sedici a tornare respirando lo smog cittadino in sella ad una Olmo, abituata ovviamente più ai boschi e le montagne che non alle strade cittadine. Non avevo ancora sedici anni, e lo zio mi pagava a cottimo. 10 lire a pacco, riuscivo a fare 4000 lire in mezza giornata: mi sembrava una paga più che onesta. Mio zio era uno che si era fatto da solo, dai suoi non aveva ereditato alcunché. Da ragazzo nato in un paesino della Val Maira era sceso in pianura e sgomitando e facendosi strada nella giungla padana era alla fine diventato industriale. Credeva nel liberismo economico, era naturale che anch’io dovessi fare la gavetta senza favoritismi di nessun tipo. Ma io avevo respirato altra aria e quella vita non era scritta nel mio destino e lui lo sapeva. Dopo aver assorbito a sufficienza il piombo e il petrolio della tipografia, il lavoro in cartiera non mi era sembrato poi così male. Potevo impacchettare risme senza pensare a quel che stavo facendo, e allo stesso tempo sognare di essere lontano. A 19 anni lo zio mi regalò una 124 sport che non usava più. Era una macchina ridicola per un ragazzo quale ero io, ma non c’era certo di che lamentarsi. Di tutti gli amici di arrampicata che avevo, ero l’unico a possedere una macchina, non dovevo più fare quegli interminabili viaggi in bicicletta ed in pulmann. Nessuno osò mai prendermi in giro, tutti ringraziarono il cielo che aveva fatto piovere quel mezzo che rendeva possibile raggiungere valli che prima erano tabù. Con il “carciofo verde” raggiungemmo il Devouly, dove spaccammo anche la coppa dell’olio, o il lontano Verdon, dopo aver guidato tutta la notte. Era la classica macchina da “fighetto”, ma la trattavamo come un’R4...
Nelle sere dell’interminabile inverno torinese andavo ad arrampicare nella palestra del Palazzo a Vela, la prima palestra indoor d’Italia. Era un muro in cemento con varie prese in legno. C’erano anche alcune fessure regolari. Allenandomi su queste ero riuscito finalmente a ripetere la Fessura Kosterlitz in Valle dell’Orco, un punto di riferimento di quell’epoca, su cui fiorivano ogni tipo di leggende metropolitane. A tutti sembrava fuori di senno scorticarsi le mani sul cemento per diventare capaci di salire una crepa in un masso, a me sembrava di imparare un’arte marziale allora appannaggio solo di alcuni stregoni quali Gabriele Beuchod, che era grado di salire vie ad incastro addirittura senza corda.
Qui una sera conobbi Janusz e Krystof, due studenti polacchi scappati da Varsavia in seguito ai disordini legati a Solidarnosc. Sicuramente in Polonia erano ricercati dalla Polizia e non potevano ritornare, così stavano alla Casa dello Studente a Torino e frequentavano l’Università. Krystof e Janusz parlavano abbastanza bene l’italiano, Krystof addirittura colorito con vari termini piemontesi. Era uno spasso sentirlo! Con Krystof ci fu un’intesa immediata e fu normale andare ad arrampicare insieme. Era il contrario di me. Gli piaceva tirar tardi e frequentare belle ragazze, la montagna e l’arrampicata erano per lui solo un piacevole diversivo. Per me invece erano la vita stessa, l’aria che respiravo. Per questo mi squadrava sempre con un sorriso ironico e compassionevole. Ma aveva una grande ammirazione per me e mi avrebbe seguito ovunque, anche se spesso scuoteva la testa incredulo, specialmente quando gli proponevo un’uscita in invernale. Mai avrei immaginato che mi sarebbe capitato un polacco amante del sole e delle t-shirt!
Quella mattina di febbraio, dopo aver caricato Daniele, attraversai la città verso il centro dove avevo appuntamento con loro. Ma all’angolo della piazza c’era solo Janusz. Lo rispedii seccato a cercare Kris, ma nella sua camera non c’era e non si sapeva dove cercarlo, finché lo trovarono addormentato in quella di una studentessa... avevamo perso un’ora e ci attendevano due ore di strada per raggiungere la nostra meta.
Imboccammo la Val Maira che era ancora buio, ma potevo indovinare la faccia di Kris con quel suo sorrisetto. Alla luce fredda del mattino la Rocca Provenzale si ergeva contro il cielo, come un enorme menhir. Questa era la valle dove era nato mio zio e parcheggiai la sua macchina alla fine della strada, contro un muro di neve, come la parcheggiavo nel cortile della sua fabbrica. Ma non c’erano quattro mura ad attendermi e ci avviammo tra i campi bianchi verso la nostra parete, mentre il sole cominciava già ad indorare le rocce quarzitiche.
Tutto scivolò via in fretta, ed aprimmo una bella via, non eccessivamente difficile, sulla parete della Torre Castello, a fianco al famoso Diedro Calcagno che da lì a poco avrei affrontato in solitaria. Ci ritrovammo tutti e quattro in cima nella luce limpida del pomeriggio invernale, mentre il sole stava velocemente scendendo dietro la cima dello Chambeyron. Battezzai la via Sete d’Oriente, in omaggio ai foulard di Kris, ma anche ai libri di Hesse, che riempivano le mie notti di allora. Raggiungemmo la macchina che era nuovamente buio e la città mentre si stava preparando ad un nuovo lunedì di lavoro.
Successivamente ho perso le tracce di Kris e Janusz. Scaduto il permesso di soggiorno, l’unica alternativa per Kris di restare in Italia era sposarsi con un’italiana e trovare un lavoro. Riuscii a procurare un’amica cinquantenne di mia madre disposta ad un matrimonio di facciata, in modo da evitare la partenza per la Polonia. Kris si sposò, ma di lì a poco io partii in Sardegna e la vita ci divise. Forse, quando la situazione politica del loro paese si è normalizzata, Kris e Janusz sono tornati in Polonia. Forse stanno arrampicando in inverno sui Tatra, forse sono padri di famiglia con un lavoro sicuro e ben retribuito ed hanno dimenticato l’alpinismo... e quella bella giornata di un lontano febbraio.

Maurizio Oviglia




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