Patagonia, una vez más. Di Marcello Sanguineti

Il viaggio arrampicata in Patagonia, con una puntata al Fitz Roy lungo la via Afanassieff e all'Aguja Guillaumet, di Marcello Sanguineti, Manrico dell’Agnola, Giambattista Calloni “Garafao”, Luigi Da Canal e Micaela Boscarin.
1° gennaio: aspettando il volo Roma-Buenos Aires passeggio nervosamente in aeroporto e provo per l’ennesima volta ad accettare il fatto che, poco più di un mese prima, ho perso uno dei miei migliori amici sulla Barre des Écrins – disperso insieme ad altri due alpinisti. Tutto inutile: non è possibile farsene una ragione... In preda a pensieri del genere, quest’anno non sono per niente motivato a combinare qualcosa di buono in montagna – tanto meno in Patagonia. Comunque, quando capitò il fattaccio alla Barre i biglietti erano ormai fatti e gli accordi con Manrico dell’Agnola (CAAI) presi; quindi, eccomi di nuovo in ballo. Fanno parte del gruppo Giambattista Calloni (il mitico “Garafao”, con il quale in agosto Manrico ed io avevamo condiviso un produttivo e divertente “USA climbing trip”), Luigi Da Canal e Micaela Boscarin, che subito assume il ruolo di “mamma” e (unico) elemento responsabile del gruppo. A El Chaltén ci raggiunge per un paio di settimane una coppia a dir poco singolare: il regista Alessandro Gatti (nome di battaglia: “Alex Gordon”) e Riccardo Di Dino, un giovane vegano alla ricerca dell’epifania dell’essere nel profondo sud del mondo.

La vacanza inizia nel più puro “stile Garafao”. Dapprima il nostro amico, preda di una frenesia che non gli consente di star fermo neppure in volo, rischia di far cadere lo schermo centrale dell’aereo che ci porta a Buenos Aires. Poi fa incetta di bicchieri di plastica e polistirolo (astutamente sottratti al personale della British Airways nei momenti di distrazione) e s’imbosca un cuscino da usare al campo base, senza darci retta quando gli spieghiamo che ormai a El Chaltén si trova tutto il necessario. E cosa dire di quando, passeggiando lungo le strade di El Calafate, cerchiamo di convincerlo che il cambio euro-dollaro argentino è 6,5 e non 65, come si ostina a credere dopo aver bevuto una dose abbondante di liquore a base di bacche di calafate?!

È la volta di trasferirsi a El Chaltén; osservo Raúl, il dueño dell’impresa di viaggi Las Lengas, mentre applica un curioso algoritmo per stivare i bagagli nel furgone. Gli ampi spazi rimasti fra i colli e il gran numero di zaini che non trovano posto la dicono lunga sulla scarsa efficacia del suo modo di procedere, ma Raúl non si scompone e, di fronte al mio sguardo interlocutorio, abbozza una sorta di sorriso compassionevole verso se stesso. Ancor più sorprendente è la procedura adottata dal buon Raúl per ottimizzare il trasporto di passeggeri e bagagli. Non essendoci posto per tutti, il nostro eroe - una sorta di Garafao argentino - decide di procedere in due fasi. La “fase A” prevede il trasporto a El Chaltén di otto dei dieci turisti paganti e undici dei quindici bagagli. Nella “fase B” toccherà ai due passeggeri esclusi e ai quattro bagagli rimanenti. A parte il fatto che i due tizi lasciati a terra hanno regolarmente pagato il biglietto per la corsa delle ore 13 – non per quella delle 19, sulla quale sono dirottati - il punto forte è la scelta dei bagagli da trasportare. Raúl decide infatti di lasciare a terra alcuni zaini di chi parte alle 13 e caricare quelli dei due passeggeri che partiranno alle 19. A poco valgono le nostre rimostranze: ormai i bagagli sono sul furgone – ci dice Raúl – e, mentre chiude il portello, ci rassicura che i suoi affidabilissimi dipendenti dell’oficina di El Chaltén penseranno a gestire la situazione. La candida ingenuità di Raúl è disarmante. Che dire… cosas patagónicas, prendendo a prestito il nome di una via sull’Aguja Mermoz! Destinati all’attesa nel piccolo aeroporto di El Calafate sono due giovani svizzeri tedeschi; dietro i loro sguardi apparentemente inanimati e la loro teutonica compostezza intuisco un misto di stupore e sconcerto - che, forse, a tratti degenerano in sentimenti meno nobili...

Arriviamo a El Chaltén proprio al termine di una finestra di tempo buono. Accidenti! Ci piazziamo nella casa del Piro (Pedro Gonzales), che Cristina ci ha messo a disposizione per questa trasferta patagonica. Piro, un gaucho per metà di origini Mapuche (indios della provincia di Rio Negro) si rivelerà un ospite simpaticissimo e gentilissimo. Secondo un cliché che mi è ormai ben noto, sfruttiamo una mezza giornata di meteo non troppo indecente per trasportare il materiale a Piedra Negra, dove lasciamo tre sacconi da carico ben nascosti fra i massi della morena. Poi ritorniamo a El Chaltén, dove inizia la logorante attesa per la ventana (=finestra di tempo buono) che ci consenta di fare una prima salita. La nostra intenzione è iniziare con qualcosa di non troppo lungo sull’Aguja Guillaumet o sulla Mermoz, per poi puntare al Fitz Roy e rientrare in Italia: questa volta non abbiamo molto tempo a disposizione. Il meteo, però, ci scombina i piani: dopo una settimana di frustrazione di fronte a weather maps e meteograms, sembra arrivare una finestra lunga a sufficienza per non lasciarci esimere da un tentativo al Fitz! Come obiettivo scegliamo la via francese sulla cresta nord-ovest, meglio conosciuta come Afanassieff: con i suoi 1600 metri è una delle più lunghe dei massicci Fitz Roy-Torre. Si sviluppa a sinistra della Supercanaleta e, in un ambiente grandioso di fronte a Pollone e Piergiorgio, alterna creste a tratti in parete, diedri, camini e tiri di misto, con vedute mozzafiato sul Torre.

Aperta nel 1979 da Jean e Michel Afanassieff, Guy Albert e Jean Fabre (dopo un tentativo nel 1976 da parte di Jean Afanassieff, Guy Albert e Patrice Bodin), rappresentò un notevole passo in avanti nell’alpinismo patagonico. I primi salitori piazzarono 300 metri di corde fisse, poi scalarono i successivi 1300 metri in quattro giorni di stile alpino. La terza e la quarta giornata arrampicarono nel mezzo di una violenta tempesta: “la ambiance est démoniaque, les cheminées se transforment en tuyère, on a l’impression de grimper avec un 747 au-dessus de la tête“. Jean Fabre scrisse anche: “Je n’ai jamais connu de montagne plus réberbative que le Fitz Roy un jour de tempête. Si les Grecs de l’Antiquité avaient pratiqué l’andinisme, ils auraient fait siéger Eole au sommet d’El Chalten et sa puissance aurait sans doute détrôné la foudre de Jupiter…“ I quattro francesi scesero la via con quarantacinque doppie, che richiesero due giorni.

Per l’avvicinamento ci sono due possibilità. Una prevede di raggiungere Piedra del Fraile e poi Piedra Negra; da qui si sale al Paso del Cuadrado, per poi abbassarsi sul Glaciar Fitz Roy Norte e attraversarlo fino a risalire in corrispondenza della cresta NO. L’altra soluzione prevede di risalire la Valle Torre fino al campo Niponino e da qui svalicare sull’altro versante del Fitz - o attraverso le Boquete del Piergiorgio o risalendo al Filo del Hombre Sentado. Avendo già parte del materiale a Piedra Negra, optiamo per la prima possibilità – anche perché è un po’ più veloce e io conosco bene il percorso, avendolo seguito l’anno scorso per la Supercanaleta. Prima di partire costringiamo Garafao a comperare una giacca in Gore-Tex nuova, che rimpiazzi l’indecente pastrano blu con la patacca da istruttore. All’inizio non vuole sentir ragioni, ma, quando minacciamo di non fotografarlo più, si decide a investire parte della pensione in una The North Face di color arancione elettrico. La inaugura in panaderia, attaccando bottone con una mujer dalle forme generose, mentre divora una pasta ripiena di dulce de leche e s’impolvera sconciamente di zucchero a velo.

Arrivati a Piedra Negra, montiamo le tende. Purtroppo Manrico non si sente bene e, dopo una notte trascorsa in preda ai brividi, è costretto a rinunciare. Delle due cordate Manrico-Garafao e Marcello-Luigi, la mattina successiva soltanto la seconda si abbassa dal Paso del Cuadrado sul Glaciar Fitz Roy Norte. Tenuto conto del fatto che Luigi ha smesso di scalare dieci anni fa per darsi al parapendio e che ha ripreso soltanto da qualche mese - giusto per non arrivare in Patagonia completamente digiuno di roccia - direi che la nostra è una cordata piuttosto singolare. Non è da tutti lanciarsi all’arrembaggio del Fitz Roy dopo due lustri di assenza dalle pareti… Garafao ci saluta con gli occhi annegati in una luce malinconica e un arcaico passamontagna blu indossato in modo improprio, che esalta la somiglianza fra il nostro eroe e Gargamella, nemico giurato dei Puffi. A differenza del cattivissimo mago dei cartoni animati, però, il nostro Garafao è sostanzialmente buono. Mi avvio sul ghiacciaio con il dubbio che, come Gargamella, anche Garafao sia una creatura della fantasia...

Le condizioni del Glaciar Fitz Roy Norte sono sostanzialmente diverse da quelle dell’anno precedente: siamo più avanti di circa un mese nell’estate australe e, oltre a questo, l’inverno è stato particolarmente secco. Come risultato, mentre a dicembre del 2011 sprofondavo nella neve fresca, ora ci ritroviamo a percorrere un pendio che, a tratti, sembra un ghiacciaio fossile. Subito dopo i primi tiri capiamo che la via non è in buone condizioni: una settimana di maltempo ha riempito di verglas le fessure, molti tratti sono innevati e scalare in scarpette non è agevole. Presto la nostra illusione di fare la via in velocità lascia spazio alla consapevolezza che ci dovremo guadagnare una lunghezza dopo l’altra. Come se non bastasse, al termine del primo giorno - quando ci troviamo un paio di tiri sotto il posto da bivacco - una “rope-eating crack” ci fa un regalo poco gradito: mantenendo fede al nome, la fessura inghiotte le nostre corde. Ci vorranno poco meno di due ore per disincastrarle! Come conseguenza, l’indomani Luigi ed io ci troviamo due cordate davanti all’attacco dei dieci tiri-chiave nella lunghissima fessura che incide diagonalmente la placca centrale: aspettando il nostro turno, inizieremo a scalare solo verso 11 di mattina! Su una via così lunga, questi imprevisti si sommano e determinano conseguenze che sfuggono al controllo. Il ritardo accumulato, insieme a uno squeeze chimney che inghiotte non le corde, ma il sottoscritto – costringendomi a una lunga ed estenuante successione di manovre per disincastrarmi dalla morsa della roccia – ci regalano una notte trascorsa in piedi fuori dei sacchi a pelo, poco sotto il secondo bivacco che avevamo in programma.

L’indomani mattina completiamo la frittata con un errore banale, ma determinante. Per recuperare il tempo perso e raggiungere velocemente la vetta, non valutiamo bene la linea di salita: pecchiamo d’ingenuità e ci teniamo troppo a destra. Quando ce ne rendiamo conto è troppo tardi: abbiamo ormai scalato una decina di tiri su terreno vergine. A questo punto, per un attimo l’amarezza lascia spazio all’euforia: come è successo altre volte nell’alpinismo, un errore iniziale potrebbe rappresentare il punto di partenza per una nuova variante! Purtroppo, i tiri che abbiamo aperto, ben più duri di quelli della via originale, ci hanno rallentato parecchio. Arriviamo a 200 metri sotto la vetta, sopra la “repisa de los franceses” (il posto dove le altre cordate bivaccheranno), ma molto più a destra. Sopra di noi incombe un enorme camino di roccia instabile: di mettere le mani su quell’ammasso di granito in bilico non si parla neppure. L’unica possibilità è affrontare i diedri e le fessure a tratti strapiombanti che si trovano un poco a sinistra. Ma questo richiederebbe tempo e l’indomani le condizioni meteo non saranno delle migliori...

Luigi ed io facciamo un veloce punto della situazione. Una linea nuova sul Fitz Roy è qualcosa di estremamente eccitante, ma decidiamo che non vale la pena rischiare la pelle combattendo contro un’eventuale bufera in mezzo all’immensa parete del Fitz. Iniziamo così una logorante discesa in doppia di 1400 metri di parete, con il tempo che alterna raggi di sole a nevicate e forti raffiche di vento. La quintessenza della Patagonia ci avvolge e ci domina: la bellezza struggente di questi luoghi si alterna alla sconcertante potenza degli eventi atmosferici. Siamo niente più di due palline sballottate in un flipper impazzito… Cavolo, come vorrei vedere i ciuffi grigi di Garafao girare vorticosamente nel turbinio del vento e ascoltare la sua voce, nell’allucinato dialetto brianzolo-bergamasco del nostro amico, che lotta per non essere sopraffatta dalla furia degli elementi!

Dopo aver attrezzato le calate sui tiri nuovi, dando il meglio della nostra fantasia alpinistica per inventare ancoraggi usando il minimo possibile di materiale, ci esercitiamo in un’operazione di “cannibalismo alpinistico”. Tutto quello che troviamo in parete (spezzoni di corda abbandonati, cordini, chiodi, ecc.) viene sistematicamente recuperato e utilizzato. Per scendere in doppia tutta la parete impieghiamo poco meno dei due giorni utilizzati dai primi salitori. Le corde s’incastrano quattro o cinque volte, costringendoci a risalite su prusik o a ripetere tiri. A volte il vento, come un fachiro che si diverte a prendersi gioco di noi con il suo flauto magico, alza al cielo le corde lanciate per le doppie e ci costringe a giochi di prestigio. Per tirarci fuori dai guai inventiamo manovre a dir poco fantasiose. Ogni tanto penso a come ci sgriderebbe Garafao, infilato nel suo giaccone su cui campeggia lo stemma della Scuola del CAI, se potesse vederci mentre veniamo meno a quasi tutte le “regole del buon istruttore”… Finalmente, arrivati sul Glaciar Fitz Roy Norte, risaliamo al Paso de Cuadrado.

Il bilancio delle giornate trascorse sul Fitz Roy è un riassunto di ciò che queste montagne offrono a chi le vive senza compromessi. Siamo in Patagonia: terra di sogni infranti, come recitata il titolo del libro di Cesarino Fava. Per noi, il sogno è stato dapprima quello di una salita veloce, poi di una via nuova. Entrambi sono stati frustrati, ma la Patagonia - essenziale e, a volte, crudele - non ci ha delusi: i giorni trascorsi sull’Afanassieff rappresentano per me una delle esperienze alpinistiche più intense e complete.

Prima di portare a valle il materiale che si trova a Piedra Negra e rientrare a El Calafate per imbarcarci alla volta dell’Italia, una seconda finestra dà anche a Manrico e a Garafao la possibilità di accarezzare il granito della fin del mundo. Piazzato un campo sotto la cresta NO della Guillaumet, ci diamo da fare su Tee Pitelka alla parete O e sulla classica Comensaña-Fonrouge. Le atletiche fessure della prima ci legnano per bene, anche tenuto conto del fatto che il gran caldo fa colare i nevai sommitali e le bagna generosamente. Sulla seconda, invece, viviamo una piacevole giornata di scalata rilassante e in velocità, dedicata a foto e riprese. La salita si conclude con un incontenibile Garafao che saltella sulle rocce della vetta per farsi immortalare con il codino ribelle che scodinzola sotto il caschetto rosso modello “alpinismo-di-inizio-novecento”. Chissà, forse l’anno prossimo avremo l’occasione di ritornare sull’Afanassieff e terminare quella linea più diretta per la vetta… In ogni caso: una vez más gracias, Patagonia!

Marcello Sanguineti (CAAI)

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