Montagne di fine anno... Un racconto di Roberto Iannilli

Il racconto (inventato) di un fine d'anno passato in parete mentre qualcuno attende...
BUON ANNO AMORE di Roberto Iannilli

Da qualche ora è il 31 di dicembre, sto per passare l’ultimo dell’anno in parete, tra poco attaccherò la via e se tutto va bene domani festeggerò il primo dell’anno nuovo in vetta. Faccio colazione e mi preparo per uscire dal locale invernale del deserto rifugio, sono solo come piace a me. Solo in montagna ma non certo nella vita, apprezzo infatti la solitudine soltanto sulle pareti, mentre a casa ho una famiglia che adoro ed una moglie che amo. Metto in spalla lo zaino e mi torna in mente il nostro ultimo incontro, le sue parole sono state come macigni e pesano sul mio animo, nonostante questo sia indurito da anni di egoismo alpinistico. Tutto è iniziato con l’incidente e la voglia di riprendermi dall’infortunio, dalla paura di non farcela, di non essere più lo stesso.

***

“(Ce la posso fare ancora, nonostante gli anni, nonostante l’incidente e nonostante la paura. La via della est posso ancora salirla in inverno e da solo)”. Gli anni passano e cominciano a pesare, poi l’incidente, la convalescenza e gli amici che ti dicono: “Sei una forza della natura!” “A te non ti smonta nessuno, vedrai che tornerai uguale a prima.” Ed io lo so che lo fanno per compassione, lo so che si vede che non sono più lo stesso, che il tempo è passato ed ha lasciato il segno. Eppure questa via la devo fare, fosse l’ultima che faccio, quest’invernale l’ho sognata, progettata e fallita due volte, non posso rinunciare adesso. Aspettare un altro anno sarebbe fare troppo tardi, lo sento che se attendo oltre è finita, le mie residue risorse fisiche e mentali si stanno esaurendo: ora o mai più.
Il meteo è molto buono questa settimana e non c’è neppure tanta neve, ho arrampicato, camminato e corso negli ultimi mesi, sono allenato. Io vado.
“Domani vado in montagna, dormo nel locale invernale del rifugio e poi faccio la via sulla est. Mi ci vorranno tre giorni. Sta tranquilla, so quello che faccio e sono preparato per farlo.”
Mento in modo spudorato e mia moglie me lo legge negli occhi, lo sa che sono mesi che la mia motivazione vacilla, che ho mille dubbi, appunto per questo si preoccupa. Ma devo andare, il meteo è buono, sono allenato e se non vado ora non vado più.
“Ma è la fine dell’anno, non passi il capodanno con noi?”
“Ma se non ce ne è mai importato niente delle feste a noi, ora che mi stai a dire. Se non vado ora il tempo peggiorerà e chissà quando riavrò un’ occasione.”
“Tu stai impazzendo, la montagna ti ha bevuto il cervello. Sono trenta anni che ci arrampichi, l’hai percorsa per ogni verso ed ogni angolo, che vai ancora cercando in un posto che conosci come le tue tasche? Rassegnati, non sei più giovane, passa la mano a quelli che hanno ancora le energie e riposati. Avevi detto che volevi scrivere un libro, fallo!”
“Il libro lo scrivo dopo che ho fatto questa invernale, la faccio apposta ora perché ce la voglio mettere nel libro. Prima di chiudere i giochi voglio fare una prima invernale di quelle che restano, è una delle cose che mi mancano.”
“Voglio! Voglio! Voglio! Tu non sei normale, o almeno non lo sei più, la tua è una malattia, sei diventato dipendente dall’emozione alpinistica e vai alzando la dose sempre più, alla ricerca dello sballo che non riesci mai a trovare, che non riesci più a trovare. Rifletti, ragiona prima di fare una cavolata, troppe volte hai provato sulla tua pelle che significa sbagliare, non essere all’altezza, avere incidenti anche non per colpa tua, sei vivo per miracolo e sei pieno di segni, ossa riaggiustate, cicatrici; tutti avvertimenti. Ascolta questi avvisi, il prossimo potrebbe essere un fatto definitivo e non un avvertimento.”
“Non mi puoi chiedere tanto, la montagna è la mia vita, finché ce la faccio io vado, non ho alternativa, sarei morto dentro se restassi a casa quando potrei andare. Devo andare.”
“E a me non pensi? A tua figlia? A tua madre? Eppure lo sai che può accadere. Mi sono stancata di venirti a raccogliere tutto rotto all’ospedale, di far finta di niente, di sopportare la paura di non rivederti più o di ritrovarti mezzo distrutto. Dici sempre che mi ami ma non è vero, tu ami la montagna, anzi no, tu ami il tuo essere alpinista, il tuo egoismo ti sta portando a dimenticare chi sei veramente. Tu non sei una macchina per arrampicare, tu sei un uomo, con degli affetti, una vita normale, degli obblighi verso gli altri, verso me. Non ce la faccio più ad aspettarti… Lo sai che sono anni che rifiuto di accompagnarti ai rifugi o ai campi base, che saperti in parete e dover aspettare il tuo ritorno, con l’ansia di non rivederti, è un’angoscia troppo forte per me. Se pure questa volta preferisci partire anziché darmi ascolto tra noi non sarà più la stessa cosa, avrai dimostrato quello che sei veramente.”
“…”
Resto muto, non era mai accaduta una scena simile tra noi. Lo so che ha ragione, ma come può una persona con una grave dipendenza rinunciare alla sua dose senza un'adeguata volontà? Ed io questa volontà ancora non ce l’ho.
“Dopo questa via smetto, giuro che smetto.”
Non mi risponde, si gira e va in bagno, forse a piangere ed io non sono così ipocrita da andarla a consolare. Preparo il mio zaino e mi avvio verso l’auto.
“Ti mando un SMS questa sera. Mi terrò in contatto per tutti e tre i giorni. Stai tranquilla, il tempo è buono e so quello che faccio.”

***

Non sono certo lo stesso di qualche anno fa, ho perso quella voglia sfrenata, quella volontà e quella determinazione, mi è però restato l’orgoglio e prima di mollare definitivamente questa idea di invernale la vorrei realizzare. Ma le sue parole mi martellano la testa “… avrai dimostrato quello che sei veramente.” Chi sono veramente? Un invasato monomaniaco che ha perso il contatto con la realtà, questo sono diventato? La montagna mi ha trasformato, prima in modo positivo e costruttivo e poi, con gli anni, in un pazzo che non sa ascoltare i messaggi cha arrivano da se stesso e da chi lo ama?
Esco da locale invernale ed è ancora buio, con la frontale sul casco mi avvio verso la parete est. I ramponi scricchiolano al contatto con la neve ghiacciata, è il solo rumore che sento oltre al mio solito acufene che in questi momenti silenziosi esce allo scoperto. Lo ignoro, ho troppe altre cose per la testa.
Eccolo la il diedro di attacco, durissimo, il primo ostacolo di una via difficile, una delle più difficili della montagna. Questa è la quarta volta che lo scalo, l’ho già fatto in apertura, nella ripetizione in solitaria e nel tentativo in invernale dell’anno passato, so cosa mi aspetta e come affrontarlo.
Lotto come mio solito con la roccia tropo scarsa di appigli e possibilità di protezione e sono troppo preso per pensare ad altro. Arrivo al dadino lasciato incastrato anni fa e mi appendo. E’ un attimo, la mia mente si libera dell’ossessione della scalata, del prossimo problema da risolvere e torno con il pensiero alle parole di lei.
“… Mi sono stancata di venirti a raccogliere tutto rotto all’ospedale, di far finta di niente, di sopportare la paura di non rivederti più o di ritrovarti mezzo distrutto.”
“(Ti amo, ti amo più di ogni cosa, più di queste rocce fredde e insensibili. Noi passiamo, diventiamo vecchi e ce ne andiamo, solo queste rocce resteranno per sempre, al massimo si sgretoleranno un po'. Sto perdendo tempo qui, perdendo tempo da passare con te.)
”… “
(Ma che penso, sono ormai in ballo, devo andare!)”
E vado, come mio solito vado, supero il tiraccio di diedro, attrezzo la sosta e mi aggancio.
“(Ammazza che duro, poi co’ ‘sto freddo …)” Scendo lungo la corda e risalgo pulendo il tiro e di nuovo ho tempo di liberare la mente dagli impellenti bisogni scalatori.
“Lo sai che sono anni che rifiuto di accompagnarti ai rifugi o ai campi base, che saperti in parete e dover aspettare il tuo ritorno, con l’ansia di non rivederti, è un’ angoscia troppo forte per me.”
“(Amore mio lo so, lo sapevo già che evitavi di accompagnarmi per questo motivo, una volta me lo avevi già detto e poi basta, non ce ne sarebbe stato bisogno se fossi stato un altro. Ora anche sapermi lontano non serve più a farti stare tranquilla, in più occasioni il telefono ha squillato annullando la distanza tra me ferito in ospedale e te a casa.)”
Ancora una volta mi sono insolitamente distratto, il consueto completo coinvolgimento con l’arrampicata e venuto meno al primo abbassamento di tensione, scuoto la testa perplesso e riparto per il secondo tiro, difficile all’inizio ma poi meno complicato.
Supero il breve traverso e arrivo alla base della fessura. Mi aspetta un passaggio impegnativo ed obbligato, poi una facile scalata fino alla sosta. Un attimo di concentrazione e con slancio supero il passo.
“(Oggi vado davvero bene, in altre occasioni qui mi sarei cagato in mano!)”
Riprendo la scalata, ora semplice e subito ecco un’altra puntata del suo saluto.
“Se pure questa volta preferisci partire anziché darmi ascolto tra noi non sarà più la stessa cosa, avrai dimostrato quello che sei veramente.”
“(Chi sono veramente? Mica lo so io. Forse l’ho dimenticato.”)
L’ aria fredda mitigata dal sole della mattina mi scalda e mi dà fiducia, sono abbastanza veloce, sicuro di me e se non fosse per questi pezzi di vita che mi tornano in mente ogni volta che libero il pensiero dalla scalata, sarebbe una giornata ideale. Comprendo che sono tornato quello che ero, determinato, deciso a riuscire e sicuro nei miei mezzi anche se consapevole dei miei limiti. Sono euforico e soddisfatto, potrei continuare senza problemi, ma c’è quella voce che torna e mi fa riflettere. Qualcosa nei miei neurotrasmettitori si sta muovendo, uno scambio di particolari sostanze chimiche mi fa sentire il bisogno di lei, un’insostenibile nostalgia del suo abbraccio, del suo amore. E mi domando cosa ci faccio qui mentre lei mi aspetta in ansia; chi sono io per farle tanto male? Questa prima invernale solitaria potrebbe essere mia senza problemi. Un'altra pagina della rivista specializzata e della guida del gruppo porterebbero bello in evidenza il mio nome: “Prima solitaria invernale” e il mio ego alpinista si accrescerebbe ancora un po'.
Fare scalate di rilievo non è mai una questione solo personale, l’apprezzamento ed il riconoscimento degli altri è fonte di soddisfazione ed orgoglio, ma ora questo riconoscimento non mi pare più così importante, mi basta sapere di essere tornato quell’alpinista che ero e mi pare molto più importante rivedere lei. E’ vero, la montagna mi ha cambiato, sono quel che sono anche grazie a queste rocce, però mia moglie non mi ha semplicemente cambiato, mi ha fatto crescere e maturare. Se è vero che la montagna mi ha aiutato a vivere lei è la mia vita.
Proseguo la scalata fino al termine della lunghezza di corda, faccio una corda doppia e ritorno allo zaino lasciato alla sosta sotto. Tiro fuori il cellulare e lo accendo, aspetto che il segnale arrivi, digito su “nuovo messaggio” e poi scrivo: “Ho capito. Sto tornando a casa. Ciao.” Invio!
L’aria ferma ed il cielo azzurro, la roccia chiara e compatta, la neve che copre le ghiaie e si ferma al limite della verde faggeta, le mie orme 80 metri più in basso, il rifugio chiuso, i piccoli uccelli che volano intorno, tutto sembra bello ed io sono contento. Non per la scalata, non per il mio essere alpinista ancora capace, ma per aver capito che c’è un tempo per tutto e che questo corre inesorabilmente, sta a noi capire quando e come utilizzarlo ed ora il mio tempo è con lei.
Scendo in corda doppia senza neppure una briciola del solito dispiacere per la rinuncia ad una scalata, mi sento invece sollevato da un peso. Non torno indietro perché non ne ho avuto le capacità, se dovevo dimostrare qualche cosa l’ho fatto e mi è sufficiente averlo provato a me stesso.

“Bip! Bip!” Il cellulare mi avverte di un SMS ricevuto.
“Ti aspetto!”
Arrivo a casa che è quasi buio, la Panda di lei c’è. Salgo le scale, apro la porta e poggio lo zaino in terra. Lei mi viene incontro.
“Buon anno amore!”

Roberto 25 dicembre 2010

Note:
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