La Cassin-Ratti alla Torre Trieste di Paolo Cristofari

Storia di un viaggio iniziato vent'anni fa: Paolo “Ferro” Cristofari racconta la sua solitaria della via Cassin - Ratti sullo spigolo sud-est della Torre Trieste (Dolomiti).
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Paolo Cristofari 'Ferro'
Paolo Crstofari
Alle volte l'alpinismo è come un tarlo. E' così che un'idea, una parete, una salita s'insinua nella testa e fa il suo lavoro. E' un'azione a volte lentissima. A volte del tutto nascosta e silente. Sempre alimentata da quella passione che da fuori, da chi ne è immune, sembra un'infatuazione del tutto simile all'innamoramento. E' chiaro poi che, come negli amori, anche il tarlo dell'alpinismo ha le sue stagioni. Quella dell'adolescenza e quella più matura. Ma anche quella che non ha età e che dopo decenni fa riaffiorare la nostalgia dei primi timidi amori. Forse nasconde anche questo la solitaria di Paolo Cristofari sulla grande e bellissima via aperta, nel 1935, da Riccardo Cassin e Ratti sulla Torre Trieste. 700m dritti come un fuso che sono un inno all'estetica dell'arrampicata. Facile per un alpinista innamorarsene perdutamente. Proprio come è successo anche a Cristofari, meglio conosciuto come Ferro. Così, 20 anni dopo, eccolo rispolverare quella vecchia idea di una solitaria sulla Trieste. Insomma, anche questa volta il nostro tarlo ha lavorato bene. Ferro nel frattempo ne ha mangiata davvero molta di roccia. E' uno dei più forti climber vicentini della sua generazione. E anche in montagna ha un curriculum notevole. Per questo fa un po' sorridere quando racconta che pensava che la sua avventura sulla Trieste fosse più facile. In fondo, forse penserete anche voi, è “solo” 6b+... Ma, appunto, non sta proprio in questa indeterminatezza il bello dell'alpinismo? (per non parlar poi della forza del tarlo).


IO E LA CASSIN - RATTI ALLA TORRE TRIESTE di Paolo Cristofari 'Ferro'

Questa storia inizia tanto tempo fa e nasce da una curiosità: bivaccare in montagna. Pur arrampicando da qualche anno mi mancava quest'esperienza: "dormire" una notte nel cuore di una parete mi attirava, non sapevo come avrei reagito in quei momenti, immaginavo comunque ci sarebbe stato molto tempo da far trascorrere, mangiare, bere, fumare, pensare, fumare ancora e cercare di dormire. Resettare le energie fisiche e mentali, sperando che il sole sorga al più presto. Decisi di provare. Presi sotto mano la guida della Civetta e scelsi di salire la Cassin Ratti alla torre Trieste, una salita classica, ma mai banale, complessa, atletica su molte lunghezze e con un rientro considerato tra i più difficili del massiccio, sarebbe stato un gran viaggio, e tutto questo volevo viverlo da solo, da "egoista" forse. Era l'estate del '91, avevo 23 anni.

Attaccai presto, all'alba, arrivato alla seconda cengia attrezzai le seguenti due lunghezze di corda e finalmente preparai il bivacco. Che notte.. Mi ricordo il freddo (non avevo il sacco piuma) e il ticchettio del mio Swatch (lo conservo ancora) che mi svegliava regolarmente ogni 15 minuti. Quanti giri feci dentro al sacco da bivacco, cercando la posizione più comoda, senza trovarla. La notte passò lentamente, una notte amara, ma me l'ero cercata, faceva parte del gioco.

Al mattino l'umore non era al massimo, ma ero motivato e avevo ancora forza per continuare. Il cielo però era chiuso da dense nubi minacciose. Aspettai che schiarisse, confidavo nel forte vento che soffiava da Nord, ma dopo 3 ore di attesa inutile decisi di risalire la fissa e tornare a casa. Scelta sofferta, ma al momento era l'unica cosa sensata da fare. Il sole uscì nel pomeriggio e io mi sentii un po' preso in giro. Imparai molte cose da quell'esperienza, ma non arrivai in cima alla Trieste. Mancava qualcosa, quel qualcosa che va oltre la vetta. Mi ripromisi di tornare un giorno, nello stesso stile naturalmente.

Sono passati molti anni, quante avventure vissute, molte belle, ma anche tristi, la vita mi è scivolata addosso con la sua lenta velocità. Non sono più tornato lassù, ma ogni tanto ci pensavo. Quest'estate, sfogliando una rivista, incappo in una foto della Torre, che bella, mi ricordo di colpo l'avventura di quasi vent'anni fa e del fatto di non esserci più tornato.. So cosa fare! Per ben 3 volte vengo rispedito a casa per un motivo o per l'altro, ma ho "imparato" la pazienza, so che quando sarà il momento ripartirò.

Ora sono seduto sulla cima, ho mantenuto fede alla promessa, l'arrampicata è stata entusiasmante, aerea, la linea estetica: un capolavoro del grande risolutore "Cassin". Sono stanco, ho sempre arrampicato autoassicurato, mangio un po', bevo, fumo l'ultima sigaretta, mi guardo attorno: il panorama è bellissimo, che spettacolo. Mi rilasso, mille pensieri passano per la mia testa, difficile descriverli, sono emozionato, scatto qualche foto e mi preparo a scendere. Sono le 3 del pomeriggio.

Attraverso la cima verso Nord individuo l'intaglio che mi porterà al camino Cozzi da cui iniziano le calate. Trovo una vecchia corda fissa, la controllo, non è "perfetta", ma per risparmiare tempo vedo di utilizzarla. La moschetto con la longe e attraverso arrampicando, è facile, arrivato sopra al camino c'è un piccolo salto, non mi va di arrampicare, passo la fissa nel Gri-Gri, ricontrollo il tutto (mi sembra a posto), carico il peso a mi ritrovo 2 metri più giù piegato di lato, appeso come un salame, faccia a valle. Lo zaino mi ha salvato la schiena, gran botta sul gluteo e un'abrasione al polpaccio. Mi raddrizzo, poso i piedi sul masso incastrato, impreco contro me stesso e cerco di capire cos'è successo. La vecchia corda in tensione si è assestata più in alto su uno spigolo, probabilmente. Mi è andata bene. Ora l'attenzione è sicuramente alta, reagisco all'imprevisto, sono arrabbiato. ma calmo, non posso più permettermi errori. Tutto fila liscio, tra una doppia e l'altra, qualche aereo traverso su esili ballatoi mi fa sudare freddo, arrivo all'ultima doppia. Sono in seconda cengia, recupero il kevlar, vedo arrivare il nodo e sono contento, la corda si sfila, ma viene sbalzata su degli spuntoni più in basso e si incastra.

Tiro, non viene. Riprovo, niente. A questo punto scomodo tutti i Santi (Padrenostro compreso) con una serie di improperi biblici, poi prendo il coltello e recupero 35 metri di corda lasciando il resto in parete. Nel frattempo quattro "signori dei monti" (li avevo già notati ore prima) si preparano a scendere dalla seconda cengia. Due si erano calati su una via di Nadali, gli altri due sulla mia linea, potendo evitare l'ultima cengia avendo corde da 60 metri. Recupero tutto il mio materiale e riesco a raggiungerli sulle ultime doppie nel canale che ci condurrà alla base della parete. Mi aggrego a loro e li ringrazio. Ma la Trieste sembra proprio non voglia lasciarci tornare: una scarica di sassi ci investe. Siamo dentro ad un flipper, sento fischi e colpi, tutto attorno puzza di zolfo. Dura tutto pochi secondi, ma secondi lunghissimi. Per fortuna nessuno si è fatto male. Rientriamo tutti al buio, alle dieci siamo alla capanna Trieste. Adesso è finita!

Ho vissuto due giorni importanti, da solo, arrampicando su un "pezzo di storia" dell'alpinismo dolomitico. L'azione ha lasciato spazio a pensieri. I bivacchi sono lunghi e l'ho capito molto molto bene. Ho riflettuto su molte cose, ho scavato dentro me stesso, cercando di mettere a nudo quello che sono; e mi sono reso conto che di "scavare" come di imparare non si finisce mai. Spero di aver sempre il coraggio di mettermi in gioco in tutti i sensi e di perdermi a volte, questo può succedere, per trovare la giusta via. Oggi l'ho trovata e sono un po' più felice.

Questa piccola avventura è dedicata a Riccardo Visonà Dalla Pozza, un giovane amico con cui avrei voluto dividere la mia corda, ma un destino ingiusto se l'è portato via su una montagna proprio vicino alla Trieste. Siamo tutti rimasti più soli. Mi piace pensare che lui mi abbia accompagnato un po' nella mia salita, forse è stato il mio angelo custode. Ciao Riccardino.

Paolo Cristofari 'Ferro'
Note:
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