Quattordici volte Edurne Pasaban

Intervista ad Edurne Pasaban l'alpinista basca che ha salito tutti i 14 Ottomila, di Erminio Ferrari ed Ellade Ossola
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Edurne Pasaban, al Kanchenjunga
arch. E. Pasaban
Non è che in vetta a un Ottomila si stia meglio che altrove. Steve House, il grande Steve House, trovatosi in vetta al Nanga Parbat dopo una salita strepitosa e definitiva con l’amico Vince Anderson, non provò altro sentimento che la voglia, l’urgenza di scendere, abbandonare quella cima e la parete attraverso la quale vi erano arrivati. Anche Edurne Pasaban, il 17 maggio scorso in vetta allo Shisha Pangma, il suo quattordicesimo Ottomila, provò qualcosa di simile: “Non è che non sia felice”, spiegò a chi si aspettava da lei salti di gioia e si stupiva non vedendola esultare. A Lugano – dove l’abbiamo incontrata, ospite del Festival dei festival – ha completato la spiegazione: “È che quando sei in vetta hai soltanto raggiunto un punto dei molti che devi attraversare per condurre a termine la tua avventura. Se proprio vogliamo parlare di gioia, di pelle d’oca, emozioni, voglia di piangere o di ridere, allora dobbiamo pensare ai metri che precedono la cima. Quando la vedi vicina e sai che niente può ormai separartene”.

Ecco, a pensarci bene questa potrebbe essere un po’ una filosofia da applicarsi alla vita. Di tutti noi e di questa giovane donna che, per arrivare a formularla, ha salito tutte le quattordici vette superiori agli Ottomila metri, è discesa nella sofferenza di una depressione, ed è risalita con il passo di chi ormai si conosce abbastanza per dirsi, e dirci, che: sì gli Ottomila sono una gran soddisfazione, ma la vita è "otra" cosa.

Ma bisogna pur ripartire da lì, da quei benedetti Ottomila (che oltretutto significano qualcosa solo per noi gente che usa il metro: inglesi e americani, coi loro piedi e pollici e miglia non se ne curano) divenuti il traguardo di una corsa che negli ultimi anni ha visto protagonista un ristretto gruppo di alpiniste: l’italiana, Nives Meroi, l’austriaca Gerlinde Kaltenbrunner, la coreana Oh Eun-sun, e l’Edurne, bella e basca. Perdonerete il linguaggio, ma sembra di parlare di tennis: così, quando nella primavera scorsa Miss Oh (chiamata anche Miss Go, per l’utilizzo dell’elicottero negli spostamenti da un campo base all’altro) annunciò di aver salito il suo quattordicesimo Ottomila, i giornali cominciarono a parlare di Grande Slam e cose del genere.

Il suo primato tuttavia venne messo in dubbio per via della salita al Kangchenjunga, terza vetta al mondo per altezza, sulla quale probabilmente Oh non ha messo piede. "La polemica sul Kangchenjunga di Oh Eun-sun, mi ha trovata del tutto serena. Già quando mi trovavo all’Annapurna – racconta Edurne – avevo espresso i miei dubbi, e questo mi aveva attratto le critiche di molti: io sarei stata semplicemente invidiosa di un’avversaria nella “corsa” agli Ottomila. Naturalmente non potevo esprimere certezze, ma mi bastavano le parole di uno sherpa che era con lei al Kangchen: Edurne, mi ha detto, non siamo stati in cima, ma per favore non dirlo a nessuno. Forse ho sbagliato a rendere pubblici i miei dubbi, ma quando anche la Federazione alpinistica sudcoreana ha smentito la salita di Oh, mi sono sentita ancor più serena". Così la palma è stata riassegnata a Edurne Pasaban, battezzata per l’occasione “regina degli ottomila”, benché per una basca, capirete, quel “regina” non è il massimo. E così consideriamo liquidata la parte agonistica della questione.

Perché Edurne Pasaban ha da dire altro. Sull’alpinismo himalayano e sui motivi che spingono a praticarlo fino a restarne irretiti. Senza sentirsi per questo superman o wonderwoman: “Ho sempre detto, e lo ripeto, che non sono un’alpinista alla ricerca di vie nuove o estreme. Salgo gli Ottomila lungo le vie che so essere alla mia portata; una norma che mi sono data fin dal 1998, l’anno della prima spedizione himalayana. Potrei anche dire che mi piacerebbe salire il K2 lungo la Magic Line, ma so quali sono i miei mezzi e mi accontento dello Sperone Abruzzi” (Si “accontenta” cioè della più difficile “via normale” a un Ottomila, che ha respinto più alpinisti e mietuto più vittime).

Il suo apprendistato alpinistico è stato il più tradizionale: dapprima i Pirenei, poi le Alpi, quindi le Ande e infine l’Himalaya. I suoi genitori, industriali meccanici, pensavano, e speravano che prima o poi le sarebbe passata... Invece, “nel 2001 ho salito, al terzo tentativo, l’Everest. Era il mio primo Ottomila e mai avrei pensato di dedicarmi a salirli tutti. Intanto perché ne restavano così tanti e poi perché non riuscivo ancora a immaginarmi come un’alpinista professionista: troppe le difficoltà, anche economiche”. Primo Ottomila il “tetto del mondo”. Salito facendo ricorso all’ossigeno supplementare. “Ero alla prima esperienza a quelle quote. Non sapevo come il mio fisico avrebbe reagito a tali condizioni estreme: è stata una scelta di buon senso. Tanto più che lungo la via normale può capitare di dover attendere ore perché si smaltisca l’ingorgo allo Hillary Step, a 8600 metri. Un tempo che può anche risultare fatale. D’altra parte sulle montagne successive non ho usato l’ossigeno. Salvo durante la discesa dal Kangchenjunga, nel 2009, quando, ormai al campo 3, il medico della spedizione mi ha raccomandato due ore di ossigeno supplementare perché le mie condizioni mi avrebbero condotta alla morte”.

Per una qualsiasi alpinista spagnola (o italiana o francese), l’avventura himalayana, benché desiderata a fondo e vissuta su livelli d’eccellenza, avrebbe potuto restare solo una vacanza, una parentesi annuale di una vita lavorativa del tutto estranea alla montagna. Ma non se quell’alpinista si chiamava Edurne Pasaban. “Nel 2003, aggiunti all’Everest il Cho Oyu e il Lhotse, ho cominciato a lavorare per un programma della tv spagnola Al filo de lo imposible, con la salita dei due Gasherbrum, ma questo mi assicurava soltanto la copertura delle spese di una spedizione. Per il resto dell’anno lavoravo come ingegnere”. Quando però gli Ottomila collezionati furono ormai nove, per tentare di completare la lista la scelta del professionismo divenne quasi obbligata. E questo ha significato muoversi con spedizioni affollate, con una logistica importante e con una troupe al seguito. “Dunque ho dovuto cambiare il mio modo di salire: non si trattava ormai soltanto di raggiungere una vetta, ma di filmare la salita e riportarne le immagini. Certo, il lavoro si appesantiva, ma la collaborazione con la tv mi ha assicurato la possibilità di portar a termine il mio progetto. E soprattutto mi è piaciuto farlo”.

Benché il prezzo sia stato alto, e molte le cose, gli affetti, le persone lasciate o perse per strada. Nel 2004, la discesa dal K2 fu vicina a essere l’ultima per Edurne. Sfinita, con avanzati congelamenti ai piedi, sulla soglia di quell’abbandono che condanna l’alpinista a morire in un’incoscienza bianca e fredda, Edurne fu guidata, quasi trascinata ai campi bassi della montagna da amici e compagni occasionali e generosi. Salva, ma con il buio davanti a sé. In una intervista precedente, Edurne ha detto di aver sentito più vicina la morte nella depressione seguita a quell’esperienza, di quanto le fosse mai accaduto in montagna. “Guarda, mi ero trovata a trentadue, trentatré anni a chiedermi se ciò che facevo aveva un senso. Vedevo le mie coetanee farsi una famiglia, condurre una vita regolare, quella che la società è solita considerare “normale”; avere cioè quanto io avevo lasciato per dedicarmi del tutto alla montagna. Ho rischiato di venire schiacciata da questo confronto; e solo quando ho avuto la capacità di riconoscere e affermare che era la montagna a dare un senso alla mia vita, solo allora ho ritrovato la forza per uscire dalla depressione”.

Con tutto che stiamo parlando di una donna, vale a dire di una figura che nell’alpinismo d’élite ha stentato decenni per imporsi: il machismo degli alpinisti non è cosa da poco “e ancora oggi se al telefono dici a qualcuno che sei un’alpinista, puoi essere certa che il tuo interlocutore si immagina una donna dai lineamenti mascolini e dai modi almeno grezzi. È evidentemente un ritardo culturale. Ma se posso indicare ciò che distingue l’essere donna in questo ambiente, non è tanto quella che voi uomini chiamate femminilità, ma la capacità di soffrire, di adeguare il nostro sentimento, la nostra resistenza agli avvenimenti”.

Una risorsa che stenta spesso a vincere il pregiudizio: "Quando ho salito l’ultimo Ottomila, molte persone, molti alpinisti hanno sostenuto che vi ero riuscita solo perché qualcuno mi ha trascinato fin lassù, e soprattutto perché quel qualcuno era un team di maschi. Non è assolutamente vero. Al contrario: ho lavorato esattamente come ogni altro membro del team. Ho cucinato, mi sono preoccupata di far sciogliere la neve, ho montato le tende, ho battuto la traccia. Ho fatto le cose che ogni alpinista fa, uomo o donna che sia, ma è stupefacente che sempre a una donna sia richiesto di dimostrare di saper fare di più, per essere considerata alla pari".

Parliamo di un ambiente, naturale e umano, sempre al limite, dove la corsa ai quattordici Ottomila o anche a uno solo di essi genera pressioni, muove soldi, spinge a fare passi che altrimenti non si farebbero. “So che per molti è difficile mantenere i piedi per terra o sfuggire alle pressioni. Parecchi alpinisti vengono travolti da questi condizionamenti, dimenticando quasi la propria umanità. Due anni fa, lungo la via di salita all’Everest, un ragazzo moriva senza che nessuno si rendesse conto o si fermasse a soccorrerlo. Mi sembra che si sia persa la testa, e la proliferazione delle spedizioni commerciali ha contribuito a questo degrado”.

E ora che cosa farà Edurne Pasaban, smaltita la giostra di interviste, conferenze, presentazioni, premi? Dove troverà motivi, progetti, idee? “È chiaro che a un periodo di saturazione può seguirne uno di vuoto o di smarrimento. Ma la mia vita, soprattutto quella alpinistica, non è finita con il ciclo dei quattordici Ottomila. Reinhold Messner mi è stato molto vicino in questo momento e mi ha dato consigli preziosi, non tanto riguardo a nuovi obiettivi sportivi, ma riguardo alla mia persona, alla mia vita. Di sicuro non cercherò mete dettate dalla facilità di trovare uno sponsor. Ora voglio seguire il mio piacere di fare una salita o l’altra, senza “inventarmi” qualcosa che mi mantenga per forza sull’onda della notorietà. Voglio essere leale con me, e così esserlo con tutto il mondo”.

Ormai sessant’anni fa, i francesi Herzog e Lachenal raggiungevano la cima dell’Annapurna, il primo Ottomila a essere salito. Lionel Terray, membro della spedizione vittoriosa, anche sulla scorta di quell’esperienza scrisse poi un libro rimasto celebre: I conquistatori dell’inutile. Sono questo gli alpinisti? Gente che rischia, o butta via, la vita per un valore men che effimero? O persone che hanno capito che proprio le esperienze “inutili” sono in realtà le più preziose? “È talmente personale la spinta a praticare l’alpinismo, che mi risulta difficile darne una definizione precisa. Ancora Messner, dopo che ho chiuso il ciclo dei quattordici Ottomila, mi ha detto: quello che hai fatto è inutile, ma l’hai fatto per te. È importante che uno senta dentro di sé il valore di ciò che ha scelto di fare. Certo, se do ascolto a mia cognata, non potevo fare niente di più inutile. Per me vale l’opposto: il percorso che mi ha condotta a salire i quattordici Ottomila coincide quasi con l’intera mia vita: vi ho dedicato tutta me stessa, ho perso amici, rinunciato ad avere una famiglia, messo da parte tante cose. Ne ho pagato il prezzo e sono felice”.

intervista di Erminio Ferrari ed Ellade Ossola
Note:
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