Masada al Sass Maor, prima invernale per Larcher e Leoni

Dal 27 al 28 febbraio 2009 Rolando Larcher e Fabio Leoni hanno realizzato la prima salita invernale della via Masada (1260m, VIII-, A0) sulla parete est del Sass Maor (Pale di San Martino, Dolomiti). Il racconto di larcher e il video della salita.
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21° tiro su Masada
arch. R. Larcher
Poche pareti sono belle come la Est del Sass Maor. Poche danno l'impressione di salire su un missile come questi 1200m di roccia letteralmente sparati verso il cielo. Proprio qui, tra il 27 e il 28 febbraio, Rolando Larcher e Fabio Leoni hanno aggiunto un tassello mancante con la prima invernale di Masada, la via aperta nel 2001 da Marco Canteri e Davide De Paoli con l'allora 61enne Samuele Scalet, ovvero uno degli alpinisti mito delle Pale e probabilmente uno dei meno celebrati. Masada è una bellissima via di 1260m con difficoltà di VIII- e un tratto di A0 ancora non liberato. Larcher e Leoni hanno impiegato due giorni e un bivacco per la loro prima invernale a cui si è aggiunto un secondo bivacco in discesa. Il tutto con quella sorta di “leggerezza” che i due hanno maturato nelle loro avventure in Dolomiti e in Patagonia. Ma non per questo si è trattato di una passeggiata...

MASADA, STORIA DI UN’INVERNALE
di Rolando Larcher

La storia di questa invernale al Sass Maor inizia nel 2006. Con Fabio Leoni siamo grandi amici e ciò che maggiormente ci accomuna, è quell’atavico bisogno d’avventura che solo l’alpinismo riesce a soddisfare. Desiderosi di rompere la routine quotidiana, decidemmo d’affrontare una delle massime bigwall dolomitiche, la parete est del Sass Maor. Delle vie che raggiungono la cima, solo tre percorrono la placca d’argento partendo dal punto più basso: la storica Supermatita di Manolo e le splendide realizzazioni di Samuele Scalet, Onix e Masada. L’invernale di Supermatita la fece Lorenzo Massarotto, le due restanti rimanevano da fare, noi decidemmo per Masada, la più impegnativa.

Nel gennaio 2006 andammo a fare una ricognizione, lasciato un deposito alla base ci capacitammo della logistica necessaria. Scendemmo entusiasti, pronti a partire alla prima occasione, ma quell’inverno avaro di neve si trasformò repentinamente e nell’attesa che migliorassero le condizioni, arrivò la primavera. Nelle due stagioni successive le energie le impiegammo in Patagonia e finalmente in questo nevoso inverno, il vecchio progetto è riaffiorato.

Alla fine di dicembre 2008 siamo ritornati alla base, questa volta però siamo in tre, al progetto si è unito Michele Cagol, amico comune, cognato mio, socio di Fabio e collega accademico di entrambe. Questa è sola una falsa partenza, utile per rifare un deposito alla base, valutare le condizioni e agevolare il prossimo start con delle corde fisse, lungo i primi tre tiri impestati di neve e ghiaccio. Tutto è pronto, ora basta solo attendere la finestra di bel tempo e partire.

L’attesa è sicuramente la cosa meno faticosa da sopportare, ma è indiscutibilmente la più logorante. Un continuo procrastinare di ipotetiche partenze, tentando di far coincidere i mille impegni lavorativi e familiari, all’incerta meteo del peggiore inverno degli ultimi decenni, con il timore d’essere nuovamente beffati dalla primavera. Gli ultimi due giorni di febbraio sembrano quelli giusti, decidiamo di tentare. Purtroppo Michele si becca l’influenza; tergiversiamo un attimo, ma considerando la comune avversione alle invernali di marzo, partiamo a malincuore in due, accompagnati dal suo “in bocca al lupo”.

Partiamo di notte dal rifugio La Ritonda con 'scietti', ciaspole, frontali e tanta voglia d’azione. Non fa troppo freddo, ma in alto c’è vento e bufera. Quando schiarisce siamo alla base, qui troviamo la prima sorpresa, la grotta dove nascondemmo il saccone non c’è più, è sommersa da metri di neve. Fabio si tuffa a testa in giù aprendosi un cunicolo come una talpa e fortunatamente raggiunge il saccone. Risaliamo a jumar i primi tre tiri e poi cominciamo a scalare. Trovata la sosta successiva mi assicuro e avverto Fabio di sganciare il saccone per il recupero. Comincio a tirare ma improvvisamente sento le sue imprecazioni, da qui non capisco cosa sia successo, poi mi spiega che i movimenti del saccone hanno sganciato lo zaino ed è precipitato.

Lui è furibondo, io la prendo con filosofia, grazie alle fisse lasciate possiamo ancora rimediare a questo inconveniente. Non sono particolarmente scaramantico, ma questo disguido può essere d’aiuto ad allontanare, forse, guai ben peggiori. Fabio vola e in un’oretta è già di ritorno ansimante. Del contenuto dello zaino all’appello manca il mazzo di chiodi d’emergenza, pazienza vorrà dire che non ne avremo bisogno. Riprendiamo la salita concentrati più che mai, oggi abbiamo tanto da scalare, dobbiamo raggiungere obbligatoriamente la sosta 14. Qui la via incrocia la Solleder e sappiamo, grazie ai suggerimenti di Samuele, che è l’unico punto dove si può bivaccare.

La roccia è fantastica, ma il freddo ed il vento ci rallentano la progressione. Dai gradi della relazione si dovrebbe progredire speditamente, ma sono tiri estremamente lunghi, senza riferimenti, protetti quasi esclusivamente da clessidre, dove è facile smarrirsi e non trovare le soste. Saliamo come degli automi, tribolando e maledicendo il saccone sempre impuntato. Qualche sosta la manchiamo, la neve le nasconde, ma finalmente alle 18.00 con l’ultima luce arriviamo alla meta prefissata. Rimaniamo però delusi del posto: non c’è nulla di piano, solo uno striminzito scivolo di neve.

Fabio dice d’aver notato poco sotto una bella nicchia per due; rinforziamo la vecchia sosta e con le frontali scendiamo in doppia a vedere. Fabio lo conosco bene e so che talvolta il suo grande entusiasmo può giocare brutti scherzi. Di fatto quando lo raggiungo, la delusione diventa sgomento mentre ammiro il loculo dove vorrebbe farmi passare la notte. L’ora è tarda, la fame morde ed accovacciati riusciamo a cenare in qualche modo. Una volta ristorato, non mi rassegno a passare la notte in quel modo ed innestati gli jumar ritorno di “sopra”. La neve non ha un gran spessore e nemmeno consistenza, ma comincio a scavare finché, fortunatamente, una piazzola della grandezza del materassino prende forma, sono salvo. Forse ce ne starebbe una anche per l’inquilino di “sotto”, ma lui preferisce rimanere in cucina, la pietra sotto il culo gli da maggior conforto!! Alle 22.30 spengo la luce, ci dispiace bivaccare separati, è uno dei momenti più belli da condividere, ma la stanchezza ben presto ha il sopravvento.

Il pregio dell’est è che ti regala delle albe mozzafiato, quella di questo sabato la ricorderemo a lungo. Inoltre il sole ti bacia subito ed allevia lo shock termico all’uscita dal sacco a pelo. Quando scendo in cucina, trovo la colazione già apparecchiata, l’insonnia del Leoni ha i suoi vantaggi. La giornata si prospetta fantastica, il vento che ieri ci sferzava si è calmato e in un cielo indaco il sole fa il suo dovere. Mancano ancora 10 lunghezze per la cima, le più impegnative, la parete ora diventa strapiombante ma la roccia rimane eccellente, nel miglior stile delle Pale.

Proseguo sempre a vista fino al fatidico 19° tiro dove c’è il tratto in A0. I primi tre spit riesco a scalarli, dopo però devo arrendermi, le difficoltà, il peso del materiale e l’ombra hanno la meglio. Sembra veramente duro da liberare, per Riccardo Scarian che lo ha provato l’estate scorsa, non meno di un 8a+ boulderoso.

Ora è giunta l’ombra, ma è molto meglio del sole con il vento di ieri. Proseguiamo tranquilli senza imprevisti e poco prima delle 15.00 sbuchiamo felici in cima, nuovamente al sole. Quanto ci circonda è una meraviglia ed è un privilegio poterlo vivere ed ammirare. Le montagne incantano, cariche come non mai di neve... Poi, meno poeticamente, accendiamo il cellulare tentando di comunicare la gioia che ci pervade ai nostri cari in apprensione. Con sorpresa scopriamo che non solo lungo la parete non c’è campo ma anche dalla vetta, abbiamo Fiera di Primiero ai piedi ma non parte manco un sms. Per fortuna abbiamo i nostri angeli custodi d’emergenza, che ci sorvegliano dal basso con i cannocchiali, Gianpaolo Depaoli dalla Ritonda e Manolo poco più in basso.

Indugiamo prima di scendere, godendo del momento ed accumulando calore crogiolandoci al sole. Infine ci avviamo e senza alcun intoppo, prima dell’imbrunire siamo nuovamente alle nostre cucce sospese. Trascorriamo quest’ultima notte in parete con l’animo appagato e più rilassato. Le stelle accompagnano il dormi-veglia, come mi conciliano il sonno le martellate di Fabio, intento ad allungare il “loculo cucina” quel tanto per distendere le gambe: buona notte minatore...

L’alba è un ripetersi d’emozioni intense, il fronte del maltempo sta arrivando da ovest, ma ormai il più è fatto e con le restanti doppie ritorniamo incolumi alla base, sotto un sole lattiginoso. C’è ancora solo una cosa che c’inquieta: come riportare tutto il pesante materiale a valle? Con una semplice occhiata reciproca, troviamo subito la soluzione, quando si dice affiatamento... Carichiamo a palla il saccone, studiamo la traiettoria ottimale e, con i migliori auguri, lo lanciamo nel canalone sottostante. Vederlo precipitare a valle, è stata la cosa più esilarante di tutta la salita.

Ci hanno chiesto il perché di questo genere di salite e ce lo siamo chiesti anche a noi stessi. Tanti pensano che l’ambizione sia la spinta maggiore, io dico di no. Forse agli inizi quando si era più giovani, ma ora con tante forti ed importanti esperienze alle spalle, l'ambizione non giustifica più gli sforzi. Le invernali sono delle esperienze che oramai pochi praticano, delle cose antiquate, quasi da nostalgici, ma sono anche delle fantastiche avventure. Ed è proprio nel desiderio d’avventura che si cela la gran parte della nostra motivazione. Dalla necessità di evadere, di mettersi alla prova e dal bisogno di ambienti naturali che solo l’inverno rende nuovamente incontaminati e selvaggi. Sensazioni ed emozioni forti che danno dipendenza, da rinnovare saltuariamente, ma sempre e solo con gli amici migliori.

Rolando Larcher, C.A.A.I.


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