K2, la storia finita ed infinita

Marco Confortola è stato trasportato a Valle in elicottero. Intanto, piano piano, si comincia a ripensare a quanto è successo in questi giorni sul K2.
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Portatore Baltì in preghiera
Luca Vuerich
Sembra proprio finita al K2. Il ritorno al Campo base di Marco Confortola e il suo trasporto in elicottero verso l’ospedale di Skardu sembra aver chiuso questi ultimi, drammatici, 5 giorni. Sembra… Perché ora quel che resta è l’atroce (come definirlo altrimenti?) bilancio di 11 morti. Quel che resta è il dramma dei familiari di chi non c’è più ma anche dei sopravissuti.

Difficile se non impossibile dimenticare quei giorni terribili. Difficile se non impossibile allontanare gli incubi e i fantasmi del dramma. E tutte le storie e le tragedie che immancabilmente si sono intrecciate lassù sulla seconda montagna più alta del mondo, forse la più bella, senz’altro una delle più difficili e pericolose e (per questo?) sognate dagli alpinisti.

Ora, piano piano, con quanto ha dichiarato Marco Confortola, ma anche gli olandesi Wilco van Rooijen e Cas Van de Gevel, si comincia a sapere. Qualcosa di ciò che si è “consumato” nella notte tra venerdì e sabato, in quella terra di nessuno (o per nessuno?) tra il temuto Collo di bottiglia e la cima, ovvero ben oltre 8000m, sembra più chiaro. Sono testimonianze a caldo. Per certi versi, e non potrebbe essere altrimenti, terribili.

Sono testimonianze di “scampati” al dramma, e perciò anche necessariamente confuse. E anche per forza di cose parziali, nel senso di limitate. Ricostruire ciò che è veramente successo a così tante persone in una montagna immensa (e ripetiamo: difficile) come il K2, non è cosa semplice. Anzi, ricordando ancora le vicende del 1986 sempre al K2 e nel 1996 all’Everest, è probabile che dovremo attendere un (bel) po’ prima che una ricostruzione complessiva venga fatta. E anche così l’esperienza purtroppo insegna che non tutto potrà essere chiarito.

Intanto si parla di materiali (quelli per attrezzare il Collo di bottiglia) non adeguati. Di bandierine segna percorso non sufficienti. Di disorganizzazione e anche per taluni (forse) di non adeguata preparazione. Quello che sembra certo - oltre al dramma questo sì assolutamente vero e da rispettare! - è l’altissimo numero di persone che, nell’epilogo di una giornata con meteo perfetta, hanno affrontato tutte assieme una delle cime più ostiche del mondo.

E’, ancora, l’ora tarda di arrivo in cima. E’ il crollo del seracco che spazzando via le corde fisse (inadeguate? insufficienti? installate in una posizione non ottimale?) ha alzato un “ponte levatoio” che per i più si è rivelato probabilmente insormontabile. Ma quel che è certo, infine, quello che si ripete da anni, è che l’alpinista, tutti gli alpinisti, devono fare delle scelte quando si trovano sulla montagna.

Proseguire, ritornare, optare per il percorso più adatto… sono scelte molto difficili a volte, che implicano consapevolezza, autonomia di decisione. Possono essere giuste o sbagliate ma è importante avere la coscienza che, nel bene e nel male, soprattutto sugli Ottomila, sono scelte di cui l’alpinista deve essere in grado di assumersi le conseguenze. Ne va della sua vita… e anche della sua felicità.

Queste riflessioni non vogliono essere un giudizio su quanto è successo (ricordiamo a chi l’avesse dimenticato che la storia dell’alpinismo è piena di drammi, ma anche di momenti felici) ma solo ripetere cose da sempre risapute dagli alpinisti, soprattutto quando si affronta una montagna come il K2. In montagna, e su queste montagne, occorre avere la percezione e il rispetto della difficoltà e anche, a volte, saper rinunciare.

D’altra parte non può essere un caso che alpinisti fortissimi come Romano Benet e Nives Meroi abbiano impiegato 12 anni per salire il K2 (seppur con 3 tentativi da nord) mentre Hans Kammerlander c’è riuscito dopo 4 spedizioni, ritornando almeno due volte indietro per le pessime condizioni del traverso del Collo di bottiglia e infine arrivando in cima salendo per la Cesen, insieme a Jean-Christophe Lafaille.

Sono solo due esempi. Ma se ne potrebbero fare altri, ovviamente in positivo ma anche in negativo. Ripetiamo stiamo parlando di consapevolezza delle scelte (difficili) che gli alpinisti si trovano di fronte prima, durante e dopo una salita. E tutto ciò, è bene precisare, non c’entra nulla con i soccorsi che nel limite del possibile si devono portare agli alpinisti in difficoltà - anche in questo la storia insegna, basti ricordare l’epopea tragica delle salite sulla nord dell’Eiger ma anche il Monte Bianco dell’era Bonatti.

Appunto i soccorsi… e la memoria. In questi giorni sul K2 c’è una certezza: tra chi ha portato aiuto sulla montagna, oltre allo statunitense George Dijmarescu che è andato incontro a Marco Confortola ma anche altri che si sono prodigati, splende l’opera degli sherpa e dei portatori d’alta quota pachistani (per inciso, sono alpinisti o lavoratori?). Tra loro alcuni hanno perso la vita per portare soccorso.

Altri, come (il grande!) Pemba Gyalje Sherpa - uno dei "sopravvissuti" - che ha salvato Marco Confortola e, insieme a Cas van de Gevel, ha soccorso anche il capo spedizione olandese Wilco van Rooijen, si sono comportati da eroi. Non vanno assolutamente dimenticati! Come non si può tacere che, ancora una volta, è tempo per gli alpinisti di ripensare al senso del loro alpinismo, della montagna e della vita.

Pemba Gyalje Sherpa
Secondo la scheda riportata sul sito della spedizione olandese della quale faceva parte, Pemba Gyalje Sherpa è nato il 20 febbraio 1973 e vanta un curriculum Himlayano di assoluto spessore. Spiccano le 6 salite in cima all'Everest, le 3 vette del Cho-Oyu, oltre a svariate volte in vetta all'Ama Dablam, il Baruntse, il Lobuche a cui si aggiunge una lunga serie di altre montagne tra i 6000m e 7000m. (scheda)


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